Un handicap, una mancanza, una debolezza… Che diventa una sicurezza, un pilastro intorno al quale costruire la propria vita, un binario da seguire per non perdere la direzione. Sembra un paradosso, quasi un’utopia, per qualcuno addirittura una bestemmia. Un tempo forse era così, oggi, invece, questo è possibile. Anzi, è la realtà che sperimentano ogni giorno molti di noi non vedenti. Tanti ne sono consapevoli, altri forse no, ma la vivono, e la testimoniano.
Ma come può una vulnerabilità trasformarsi in forza? Come può un handicap diventare il tratto distintivo della propria esistenza, fino al punto di darle senso? Com’è potuto accadere questo?
È successo perché, anche grazie all’opera di molti non vedenti che ci hanno preceduto, il mondo è cambiato: negli ultimi trent’anni la società occidentale si è trasformata talmente tanto e talmente in fretta da smontare certezze durate secoli, per lasciare spazio ad altri valori e a una nuova visione delle cose.
Il nostro handicap, non dimentichiamolo mai, è un fatto sociale oltre che personale. Non è il caso di ripercorrere qui le radici del legame profondo e indissolubile tra disabilità e contesto sociale, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ormai sancito da tempo.
Come fatto sociale, anche il nostro handicap, il modo di viverlo e di percepirlo, è figlio del suo tempo. E questo, a parere di chi scrive, è il tempo del riscatto totale per la cecità e per i ciechi.
Viviamo in una società che più che liquida, come l’ha definita all’inizio di questo secolo il sociologo Zygmunt Bauman, si trova oggi allo stato gassoso. Tutti si muovono nell’affannosa ricerca di senso, d’identità, di una parte in commedia da recitare, di uno spartito da suonare. La cecità può rappresentare quello spartito. Non c’è un modo solo di suonarlo, ciascuno può interpretarlo a suo modo, ma la cecità può essere quello spartito.
Gli strumenti per eseguirlo ci sono, ora più che mai: tra i più potenti c’è la tecnologia, ma non è l’unico. C’è l’ampia possibilità di muoversi e di incontrarsi, c’è una maggior circolazione di idee, un accesso e una fruizione della conoscenza totalmente a portata di mano. C’è anche una mentalità più aperta nei nostri confronti, non possiamo negarlo, sebbene molto ci sia ancora da fare, soprattutto in alcuni strati della società. C’è, non da ultimo, un minor “dover essere” (o sei fatto in un certo modo o sei fuori): la cultura della diversità sta portando al superamento di questi schemi mentali, anche nel nostro Paese, seppure a fatica.
Fa piacere constatare come anche nella forma d’arte più rappresentativa del nostro tempo, il cinema, trovi spazio questo modo così fresco e dinamico di vivere la cecità: nel film Il colore nascosto delle cose di Silvio Soldini, presentato fuori concorso all’edizione di quest’anno della Mostra del Cinema di Venezia, conosciamo Emma, una quarantenne non vedente dall’età di 17 anni. Emma è autonoma, sicura di sé, risoluta. Conduce una vita piena e appagante: fa l’osteopata, fa la guida in “Dialogo nel buio”, fa sport, coltiva amicizie e passioni, ama la natura. È talmente appagata della sua condizione che ne fa dono a una ragazza che ha da poco perso la vista, a cui più che dare ripetizioni di francese fa scuola di vita.
Da questa vita piena e ordinata resta affascinato Teo, un donnaiolo scapestrato anche lui quarantenne. Pubblicitario, Teo vive di immagine, di fugaci soddisfazioni. La sua vita è una successione di “spot” scollegati tra loro.
Emma offre al pubblico una bella immagine di come si possa essere oggi non vedenti e realizzati, di uno spartito ben suonato, che esprime una perfetta armonia. Ma attenzione: quello spartito non si suona da solo. Emma non suscita ammirazione né attrae Teo per il solo fatto di essere non vedente, bensì per il suo modo di esserlo: Emma ha dovuto lottare per diventare quello che è. Niente è arrivato gratis, la sua vita di oggi se l’è costruita giorno per giorno con il sudore della fronte, partendo dal totale rifiuto della sua condizione.
E in quello spartito non c’è spazio nemmeno per facili scorciatoie: quella che Emma dimostra rispetto agli altri personaggi del film non è una superiorità morale, di quelle che suscitano commiserazione o quando va bene compiacimento. Emma non è un angelo, ma una persona in carne ed ossa con i suoi desideri (anche sessuali), i suoi sbalzi d’umore, le sue cicatrici. Con un matrimonio fallito alle spalle, Emma è in cammino alla ricerca di sé, come tutti. Ma a differenza di Teo e di tutti gli altri, ha un punto di riferimento, una cornice nella quale ha imparato a muoversi alla perfezione, un qualcosa che suscita ammirazione e stupore: è il suo handicap, la sicurezza e la piena consapevolezza con cui lo vive.
La cecità può aiutare a raggiungere una pienezza di vita che oggi tante persone cosiddette “normodotate” sognano di avere. Questo, però, a patto di rimboccarsi le maniche e cogliere le tante opportunità che il mondo ci offre: non si tratta più di galleggiare, di rivendicare diritti e privilegi, di raggiungere un equilibrio nel quale convivere pacificamente con il proprio handicap. La sfida a cui siamo chiamati – a cominciare dai giovani, ma non solo – è molto più ambiziosa e impegnativa. E il gioco può valere molto più della candela.