Lo scorso 3 marzo, nel sito del quotidiano britannico «The Guardian» è stata pubblicata la testimonianza di Rose Hughes, una ventenne con la sindrome di Asperger che ha preso la decisione di farsi sterilizzare. «Non voglio essere una madre, e neanche correre il rischio di trovarmi in quella situazione. Ho l’Asperger, e sebbene molte persone con autismo sanno essere buoni genitori, non è qualcosa che mi sento in grado di considerare. Io semplicemente non ho le risorse o gli istinti di prendermi cura di un’altra persona in modo adeguato, ma voglio ancora avere una vita sessuale soddisfacente», ha dichiarato, spiegando anche di aver dovuto combattere una lunga battaglia per convincere i medici a prenderla sul serio.
Qualche giorno dopo, il 7 marzo, a Ginevra, Ana Peláez Narváez, vicepresidente dell’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, rivendicava, davanti al Consiglio ONU sui Diritti Umani, il diritto, spesso negato, delle donne con disabilità all’accesso alla giustizia e, nel farlo, ha richiamato con forza l’attenzione sul tema della sterilizzazione forzata, alla quale moltissime ragazze e donne con disabilità vengono ancora sottoposte (anche in Europa), chiedendo agli Stati Membri dell’Unione Europea di riconoscere pubblicamente che essa costituisce una violazione dei diritti umani [se ne legga anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
Si tratta di due situazioni e due contesti solo in apparenza opposti perché, a rifletterci bene, queste due donne con disabilità stanno entrambe rivendicando la stessa cosa: il diritto all’autodeterminazione. Quello di poter accedere a una prestazione sanitaria liberamente e consapevolmente scelta (la sterilizzazione volontaria come forma di contraccezione permanente); e quello di non esservi sottoposti senza previo consenso – informato, libero e consapevole – della persona interessata.
La sterilizzazione in sé, infatti, non costituisce una pratica lesiva dei diritti umani, talché molte donne, anche senza disabilità, vi fanno ricorso partendo dalle motivazioni più diverse; lo è invece quando non è liberamente scelta, e non vi è una grave minaccia o un rischio per la salute o la vita della persona che induca ad utilizzarla. La qual cosa accade più spesso a danno di donne con disabilità intellettiva e psichiatrica. Vale a dire donne che si trovano in una situazione tale di vulnerabilità per cui tali decisioni sono demandate a soggetti terzi.
In un Rapporto di ricerca volto a porre fine alla sterilizzazione forzata delle donne e delle ragazze con disabilità – redatto congiuntamente dall’EDF e dalla Fondazione Donne del CERMI (Spagna), e adottato dall’Assemblea generale dell’EDF nel maggio dello scorso anno -, si spiega come tale pratica costituisca una forma di violenza e una violazione dei diritti umani.
La prima associazione che viene in mente quando si parla di questo tema riguarda i programmi eugenetici realizzati dal regime nazista, quando – prima ancora di procedere allo sterminio vero e proprio – 400.000 persone con diverse disabilità vennero sottoposte a questa pratica (si legga a tal proposito, su queste stesse pagine, Stefania Delendati, in Quel primo Olocausto).
Tale accostamento, però, non deve impedirci di vedere che la sterilizzazione forzata ai danni delle persone con disabilità è stata posta in essere in molti Paesi occidentali anche in epoche diverse.
Ad esempio, è stata praticata ampiamente nelle donne con disabilità intellettiva in Canada e negli Stati Uniti nei primi anni della metà del Ventesimo Secolo, quando gli individui con disabilità intellettiva erano considerati incapaci di genitorialità. Inoltre, la sterilizzazione forzata venne prescritta per legge per alcune categorie di individui, tra cui “criminali”, “stupratori”, “epilettici”, “i pazzi e gli idioti”. Il primo Stato americano a legalizzare la sterilizzazione obbligatoria fu l’Indiana, nel 1907, ma alla fine degli Anni Venti ben ventiquattro Stati degli Stati Uniti avevano introdotto questa pratica.
L’Australia non ha ancora nessuna Legge che vieti la sterilizzazione forzata di donne o bambini con disabilità, sebbene vi siano evidenze che suggeriscono che la maggior parte delle ragazze che sono state sterilizzate abbiano una disabilità intellettiva.
Stando ancora al Rapporto citato, anche in Europa la pratica della sterilizzazione forzata delle donne appartenenti a gruppi emarginati, come le donne Rom e le donne con disabilità, ha una storia che non può essere circoscritta alle politiche eugenetiche della seconda guerra mondiale, ma che continuò – e che continua tuttora – ad essere attuata nelle moderne democrazie.
Ad esempio, la Svezia ha istituito un programma di sterilizzazione eugenetica nel 1934 e lo ha abolito solo nel 1976. Con questo programma 21.000 persone vennero sterilizzate con la forza, e 6.000 furono costrette alla sterilizzazione “volontaria”.
In Spagna, secondo i dati dal Consiglio Generale della Magistratura (relativi al periodo 2010-2013), c’è una media di 96 sentenze della Corte che autorizzano la sterilizzazione di persone con disabilità private della loro capacità di agire.
Altri Paesi che in precedenza avevano attivato programmi di sterilizzazione sono la Danimarca, la Norvegia, la Finlandia, l’Estonia, la Svizzera e l’Islanda.
Riguardo all’Italia, vanno richiamate le Osservazioni Conclusive rivolte al primo rapporto del nostro Paese sull’attuazione dei princìpi e delle disposizioni contenute nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia nove anni fa, con la Legge dello Stato 18/09), osservazioni elaborate nel 2016 dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. In esse si esprimeva preoccupazione per la mancanza di dati sui trattamenti somministrati senza il consenso libero e informato della persona, compresa la sterilizzazione, si raccomandava l’abrogazione di tutte le Leggi che permettono di somministrare trattamenti medici, compresa la sterilizzazione, autorizzati da terzi (tutori, genitori), senza il consenso libero e informato della persona, e di fornire in merito formazione di alta qualità al personale sanitario (punti 63 e 64).
Ma come è possibile che anche nel mondo attuale la pratica della sterilizzazione forzata sia riuscita a sopravvivere? Il citato Rapporto di ricerca ha individuato tre miti che sono stati utilizzati per giustificarla. Vediamoli qui di seguito.
Per il bene della società, della comunità o della famiglia
Questa giustificazione si basa sull’idea che doversi prendere cura di un “bambino anormale” sia un onere, e sulle difficoltà che una donna con disabilità potrebbe sperimentare nella gestione delle proprie funzioni riproduttive, e in particolare delle mestruazioni.
L’argomentazione si fonda anche su fattori economici e sociali, e adduce a pretesto le ulteriori spese che lo Stato dovrebbe affrontare per fornire servizi sociali alle persone con disabilità. Come se il rispetto dei diritti umani potesse essere vincolato ai potenziali costi che la loro garanzia potrebbe comportare!
Anche riguardo all’onere per le famiglie, è rilevato che spesso ai genitori delle ragazze con disabilità non sono dati supporti e informazioni sufficienti, cosicché essi si ritrovano soli, a causa della mancanza di servizi e di risorse. Di fronte a questa difficile situazione, che deriva dall’inaccessibilità dei servizi e dalla mancanza di una formazione specialistica sulla gestione delle mestruazioni e sulla salute riproduttiva, una famiglia può pensare alla sterilizzazione come all’unica soluzione per la propria figlia.
Incapaci di essere madri
C’è un pregiudizio ampiamente diffuso che le donne con disabilità non possano essere madri, anche a fronte di evidenze che dimostrano come, in realtà, molte di esse siano madri di successo di figli e figlie felici. A parte il fatto che ci sono pochi criteri oggettivi per giudicare e determinare le capacità o la mancanza di competenze di un padre o una madre, vi è la tendenza a sperdersi nelle aree delle emozioni e ad utilizzare idee soggettive per definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Questa convinzione prevale, nonostante il fatto che la ricerca non abbia mostrato alcuna chiara correlazione tra il livello di istruzione e d’intelligenza dei padri e delle madri e la loro capacità di essere buoni genitori.
Questa percezione sociale negativa verso le persone con disabilità è peggiore nei confronti delle donne con disabilità, poiché si attribuiscono loro maggiori responsabilità nelle cure genitoriali. Nei loro confronti, infatti, i giudizi di valore, riguardo a questo aspetto, sono ancora più offensivi e negativi. Per le donne con disabilità psicosociali potrebbe essere menzionato il pregiudizio che esse potrebbero danneggiare i propri figli. La giustificazione della “pericolosità” è usata per limitare i loro diritti in molti settori della loro vita, nonostante le evidenze mostrino chiaramente che esse sono più spesso vittime, piuttosto che autrici, di violenza.
Per il “bene delle donne con disabilità”
Questo mito si propone di proteggere le donne con disabilità dagli abusi e dalle eventuali gravidanze causate da possibili abusi futuri, oltreché dalle difficoltà mestruali che potrebbero incontrare, ad esempio, le donne interessate da autismo e da gravi disabilità di apprendimento, in particolare quando si verificano sintomi gravemente angoscianti o “comportamenti problema”.
La maggior parte delle ricerche sulla sterilizzazione forzata si è concentrata sulla sterilizzazione delle ragazze con disabilità intellettive di età inferiore ai diciotto anni e con elevate esigenze di supporto. C’è una vasta letteratura medica, legale e accademica che tratta questo problema, ma ci sono pochissime testimonianze scritte dalle persone che sono state sottoposte a questo tipo di intervento chirurgico irreversibile e invasivo. L’inaccessibilità di questo tipo di informazioni porta ad interrogarci sulla quantità di donne con disabilità intellettive che si trovano ancora in una situazione di grande vulnerabilità e di mancanza di potere.
Pertanto, se ancora oggi questo tipo di crimine continua ad essere commesso, non dipende più da quella follia che inseguiva il mito della “razza pura”, un mito dal quale abbiamo imparato a difenderci; dipende invece da altri miti, basati su pregiudizi ancora troppo radicati, perché le persone comuni – e talvolta le stesse persone con disabilità – si dispongano a metterli in discussione. Miti che, proprio per questo motivo, devono essere conosciuti. Anche da questi dobbiamo imparare a difenderci.
Per approfondire ulteriormente i vari temi legati alle donne con disabilità, va considerato innanzitutto il lungo elenco dei contributi più recenti da noi pubblicati, disponibile a fianco dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite (a questo link).
Suggeriamo inoltre ai Lettori di accedere anche alle Sezioni dedicate rispettivamente ai temi Donne con disabilità e La violenza nei confronti delle donne con disabilità, presenti nel sito del Centro Informare un’H.