Esattamente un anno fa, il 13 aprile, veniva pubblicato dal Governo uscente il Decreto Legislativo 66/17 sull’inclusione scolastica, attuativo della cosiddetta Buona Scuola. Ebbene, dopo un anno dall’emanazione di tale celebrata riforma del sostegno, le testimonianze dirette dei ragazzi con disabilità e dei loro genitori e la nostra quotidiana esperienza sul campo ci fanno purtroppo registrare il persistere delle solite annose carenze dell’attuale modello di inclusione. E ci riferiamo innanzitutto alla scarsa formazione specifica dei docenti specializzati.
Tale punto di debolezza dell’odierno sistema inclusivo si spiega perché le modalità di arruolamento e di formazione iniziale degli insegnanti per il sostegno – disposte dal Decreto Legislativo 59/17 e dallo stesso citato Decreto 66/17 – entreranno a pieno regime solo a conclusione del nuovo percorso triennale FIT (Formazione-Insegnamento-Tirocinio). Come dire che i benefìci della Buona Scuola, se ce ne saranno, si potranno avvertire almeno fra tre anni e che i reali e urgenti bisogni educativi degli alunni con disabilità continueranno, nell’immediato, a non essere soddisfatti adeguatamente.
Inoltre, non si trascuri che – a causa dei discutibili ciclici provvedimenti adottati dal Ministero nel corso degli ultimi anni, nella sola logica dell’emergenza e della difesa di interessi di tipo corporativo – oggi il 40% dei 120.000 docenti per il sostegno risulta essere “in deroga”, con incarichi precari e spesso non specializzato, quando addirittura nemmeno abilitato.
Come si può ben comprendere, questo elemento di forte criticità non depone certo a favore della qualità del processo, costringendo circa l’8% (scuola primaria) e il 5% (scuola secondaria) delle famiglie italiane a ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere i propri diritti.
A parere di chi scrive, questo ricorso ai Giudici da parte dei genitori degli studenti con disabili è senz’altro sacrosanto, ma sta rischiando di diventare indiscriminato, a causa della pericolosa china del nostro modello di inclusione verso la delega al solo docente di sostegno, considerato ormai quasi “intoccabile”, indipendentemente dalle sue competenze.
Infatti, contravvenendo ai princìpi pedagogici e didattici della “scuola per tutti e per ciascuno”, del “sostegno” alla classe, della “flessibilizzazione” dei contesti, della personalizzazione degli insegnamenti-apprendimenti, dell’autonomia didattica e delle pari opportunità (previsti sin dalla Legge 517 del 1977, oltreché dalla Legge 104 del 1992 e dal Regolamento sull’Autonomia delle Istituzioni Scolastiche del 1999), in questi ultimi decenni il Ministero non se l’è sentita di “rivoluzionare” il sistema, investendo su servizi alternativi di supporto. L’unica cosa che ha saputo fare è stata quella di limitare la propria attenzione soltanto al docente di sostegno, quale unico “garante” del processo di inclusione (la media nazionale si è ormai assestata sul rapporto di un docente ogni due alunni, come d’altra parte previsto dall’articolo 19, comma 11 della Legge 111/11).
Va detto a questo punto che lo stipendio medio mensile di un docente di sostegno si aggira intorno ai 1.650 Euro. Dunque, conti alla mano, lo Stato italiano spende per il sostegno circa 2 miliardi e mezzo di euro all’anno. Con queste cifre, ci si aspetterebbe francamente molto di più. Non sembra infatti che tale massiccio intervento a favore del docente per il sostegno, e non del “sostegno del contesto”, abbia prodotto una crescita della qualità del processo di inclusione degli studenti con disabilità. Anzi, tali “storture” del sistema hanno finito per danneggiare ulteriormente i nostri ragazzi, privandoli di un adeguato supporto territoriale psicopedagogico, capace di “includerli” e di renderli veramente autonomi nello studio, nel lavoro, nello sport e nel tempo libero.
La cosa più deludente è che purtroppo neppure la tanta decantata e recente riforma del sostegno muterà tale “circolo vizioso”, perché anch’essa continua ad insistere colpevolmente solo sulla centralità del docente di sostegno, piuttosto che garantire agli alunni con disabilità un sostegno “diffuso” in tutto il contesto, che è invece la logica che sta alla base dell’autentica cultura dell’inclusione. Prova ne è il fatto che il Decreto 66/17 ha inspiegabilmente “annullato” i CTS (Centri Territoriali di Supporto), ridimensionandoli ad “ectoplasmatiche” Scuole Polo, la cui struttura è ancora tutta da definire.
Parimenti, sempre a conferma della mancata “responsabilizzazione” dell’intera comunità educante sul processo di inclusione, la formazione generalizzata di tutto il personale scolastico sulla didattica inclusiva, prevista dall’articolo13 del Decreto 66/17, pare non decollare affatto, in quanto, paradossalmente, esso non fa obbligo allo stesso personale di osservarla.
Senza dimenticare, infine, che il non più rinviabile riconoscimento del profilo dell’assistente alla comunicazione – che la Conferenza Stato-Regioni tarda ancora immotivatamente ad adottare – inficia ulteriormente una presa in carico globale da parte del contesto dei nostri ragazzi, compromettendone non poco l’inclusione nella scuola “di tutti e di ciascuno”.
Le forze politiche che hanno vinto le elezioni del 4 marzo, impegnate in questi giorni nelle consultazioni con il presidente della Repubblica Mattarella, hanno dichiarato inequivocabilmente e senza se e senza ma di volere “strappare” e azzerare la Buona Scuola, definendola «nefasta per il nostro sistema nazionale di istruzione». Non so se ciò sarà fatto realmente da chi avrà a breve l’onore e l’onere di governare il nostro Paese. E tuttavia, anche qualora la Buona Scuola dovesse essere “rottamata” nel prossimo futuro, mandandone in soffitta pure la Delega sull’inclusione, con molta umiltà mi sento di poter suggerire all’Esecutivo che verrà che non servono innumerevoli riforme, nuovi acronimi e semplici cambi formali di nomi per migliorare lo stato del sostegno in Italia. È invece necessario e indifferibile che questi interventi si trasformino e traducano una volta per tutte in reali buone prassi.
L’inclusione scolastica, infatti, non è un “incidente di percorso”, né un’“emergenza da presidiare”, ma al contrario dovrà essere affrontata da qualsiasi nuovo Governo con una visione organica, con azioni di sistema e a lungo termine e, soprattutto, applicando finalmente nei fatti e non lasciando più sulla carta gli innovativi e civilissimi princìpi della nostra avanzata e invidiata legislazione inclusiva.