I sogni di cui vi voglio parlare non sono quelli ad occhi aperti che invocano l’avvento di un mondo migliore, ma quelli ad occhi chiusi, partoriti nei brevi momenti di pace nel cuore della notte.
Già vedo la faccia che farebbe la mia psichiatra se glieli raccontassi: occhi levati al cielo, sguardo in alto, braccia allargate. Pertanto ho deciso di non raccontarglieli, per non peggiorare la sua già scarsa fiducia in una mia lontana, quasi impossibile, guarigione.
Ma cosa mai sognerà questo vecchio caregiver ormai prossimo alla “pensione da caregiver”? Quali reconditi segreti verranno a galla, mentre il Super Io di freudiana memoria dorme il sonno del giusto?
Banalità per lo più. Sogni comuni: l’essere più giovane (di 50 anni…) e misurarsi con le tipiche malefatte della giovinezza; essere al comando di un veliero a tre alberi in procinto di colore a picco nel mare in tempesta, essere circuito e adescato da fanciulle bellissime e…
Che questi sogni siano una sorta di rivalsa sul presente, difficile e faticoso? Che siano generati dallo sbuffare tedioso del respiratore o dal repentino suonare di allarmi vari di cui purtroppo è dotato il medesimo malo apparecchio?
Per interpretarli, lasciando in pace quella povera psichiatra, forse sarebbe necessario consultare La Smorfia, edizione in napoletano antico del 1793. Oppure consultare gli astri dall’alto di uno zigurrat babilonese in una nuvolosa notte di pioggia.
Ma forse la cosa migliore resta quella di prenderli per quello che sono, sogni appunto, e di liquidarli con un sorriso. Anche perché la notte seguente ne farò altri.
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