Abbiamo sott’occhio una delle ultime redazioni – sarà l’ultima o sarà l’ennesima bozza? – del “Contratto per il Governo del cambiamento”, frutto di una stesura condivisa fra la Lega e il Movimento 5 Stelle nelle ultime convulse giornate.
In realtà, per chi aveva certosinamente compulsato i programmi elettorali [se ne legga sulle nostre stesse pagine, N.d.R.], non ci sono elementi di particolare sorpresa in questo nuovo documento, che rappresenta largamente una sedimentazione di entrambe le proposte elettorali delle due forze politiche a vocazione governativa, pur con alcune evidenti elisioni: è scomparso dall’orizzonte, ad esempio, l’aumento delle pensioni di invalidità, promessa espressa formalmente in campagna elettorale.
Il fatto però che questo Contratto voglia rappresentare la traccia di azione e di impegno per la prossima Legislatura impone una maggiore attenzione, e forse anche una maggiore dovizia di analisi, sugli aspetti operativi che questo documento esprime. E ciò a prescindere da ogni valutazione politica altra.
L’attenzione non può che essere rivolta a due assi: quello che sta scritto ed è espresso apertamente e quello che invece è assente. Su questo secondo asse ovviamente dobbiamo tenere in considerazione solo gli elementi più rilevanti, già espressi dal movimento delle persone con disabilità e da molti analisti negli ultimi anni.
La prima impressione, che ci auguriamo venga smentita dai fatti e dalle circostanze, è che i redattori del Contratto abbiano perso “qualche puntata” di ciò che è avvenuto nel Paese in tema di disabilità negli ultimi anni. E ci riferiamo non solo al dibattito e al confronto politico, ma anche ad atti concreti – pur incompiuti, in alcuni casi – che hanno assunto la veste di norme e di indirizzo.
L’esempio più patente è la totale assenza di riferimenti, anche indiretti, al Secondo Programma di Azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, un atto che è stato approvato nella veste di Decreto del Presidente della Repubblica, firmato nell’ottobre 2017 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 12 dicembre successivo.
Quel programma, che si articola in otto linee di intervento, impegna Governo, Ministeri, Istituzioni Centrali, Regioni ed Enti Locali in specifiche azioni che investono tematiche rilevantissime, come la salute la scuola, il lavoro, la mobilità, la cooperazione internazionale, il monitoraggio delle politiche, i nuovi criteri di riconoscimento della disabilità…
Quel documento è il risultato di un anno e mezzo di confronto vivo all’interno dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, organismo che ha visto la partecipazione attiva di organizzazioni di persone con disabilità, organizzazioni sindacali, istituzioni centrali e locali, ministeri. Ignorare a piè pari quel documento programmatorio assume, sia voluto o meno, un significato politico di svalutazione del lavoro svolto, e anche delle modalità di confronto, condivisione, concertazione adottate. Inoltre lascia parecchio perplessi, soprattutto leggendo poi alcuni passaggi del Contratto, che sono trattati in modo molto più approssimativo e superficiale rispetto al Programma di Azione stesso. I contraenti hanno dunque perso l’opportunità di riprenderne gli elementi essenziali.
Questa lacuna induce anche altre preoccupazioni: verosimilmente le previste 47 azioni del Programma di Azione Biennale, articolate in 194 azioni specifiche, rimarranno, ancora una volta, lettera morta.
Viene conseguentemente da chiedersi quale sarà il ruolo effettivo futuro dell’Osservatorio Nazionale sulle Condizioni delle Persone con Disabilità, organismo previsto dalla stessa Legge di ratifica della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (Legge 18/09).
Ma vi sono anche altri passaggi che tradiscono quell’amnesia – preferiamo chiamarla così – rispetto ad altri accadimenti degli ultimi anni. Ad esempio, nell’agosto del 2016 il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, nelle sue Osservazioni Conclusive al primo Rapporto sull’applicazione della Convenzione ONU in Italia, aveva espresso una lunga serie di preoccupazioni sulle condizioni di vita delle persone con disabilità, formulando congruenti raccomandazioni al nostro Paese. Nemmeno di questo atto internazionale c’è traccia nel Contratto.
Evidenti lacune vi sono poi su temi di centrale rilevanza politica e culturale. Solo per citarne alcuni: il contrasto alla segregazione e all’isolamento; il rischio di impoverimento derivante dalla condizione di disabilità; il contrasto alla discriminazione, al linguaggio dell’odio, alla violenza e all’abuso sulle persone con disabilità, in particolare sulle donne e su chi vive la discriminazione multipla; e ancora: la questione dei nuovi criteri e delle modalità di riconoscimento della condizione di disabilità.
Su tali aspetti non si rinviene cenno né diretto né indiretto. Ciascuno di essi non richiede certo solo mere espressioni di principio, ma azioni concrete. Ad esempio sulla segregazione ci si aspetterebbe, anche dal prossimo Governo, l’individuazione netta e perentoria di criteri che impediscano, già in sede di accreditamento istituzionale delle strutture, la riproposizione di contesti segreganti.
Ma veniamo compiutamente alla bozza del contratto (15 maggio 2018, ore 18). I riferimenti alla disabilità sono pressoché tutti all’interno del paragrafo 15, denominato Ministero per le disabilità. Anche la scelta del titolo, che ha una valenza non solo semantica, richiama quanto espresso in campagna elettorale soprattutto dalla Lega.
Il paragrafo inizia già con un’incongruenza con la Convenzione ONU: Uno Stato civile deve proteggere, tutelare, assistere e integrare chiunque abbia una disabilità.
La disabilità, secondo la Convenzione, non è una condizione esclusivamente soggettiva, non è sinonimo di minorazione, ma il risultato della sua interazione con varie barriere, che possono impedire la piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri (come per altro richiama lo stesso contratto qualche capoverso più in basso).
Se ciò è assodato – e non è capziosa questione di lana caprina – la persona non «ha una disabilità», ma «vive una condizione di disabilità». Uno “Stato civile”, quindi, non deve solo «proteggere o tutelare» la persona, ma, ancora prima, rimuovere ostacoli e barriere che impediscono la partecipazione su base di uguaglianza. Quindi: riconoscere e contrastare la discriminazione.
Si prevede un generale rafforzamento dei fondi sulla disabilità e la non autosufficienza […].
Non è ben chiaro ed esplicito il senso di “rafforzamento”. L’intento sembra essere di proseguire nell’impostazione degli ultimi Governi, e cioè mantenere e rendere strutturali i Fondi, in particolare il richiamato Fondo per la Non Autosufficienza. Nessun accenno alla programmazione e alla redazione di una specifica pianificazione (ricordiamo che esiste già un Tavolo per la Non Autosufficienza che dovrebbe redigere quel Piano).
Inoltre è necessario intervenire affinché i trattamenti assistenziali, previdenziali ed indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche, qualora attinenti a condizione di disabilità, siano esclusi “tassativamente” dal calcolo dell’ISEE o di altri indicatori reddituali, necessari per accedere ad agevolazioni o benefici.
Anche in questo caso i contraenti sembrano avere perso qualche passaggio. L’intervento legislativo auspicato, infatti, è già stato approvato con la Legge 26 maggio 2016, n. 89 che ha recepito le sentenze del Consiglio di Stato (Sezione IV), nn. 00841, 00842 e 00838 del 2016.
La norma in questione già prevede che nell’ISEE non siano considerati: «i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, comprese le carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche in ragione della condizione di disabilità».
Bisogna dare completa attuazione alla Convenzione O.N.U. sul diritto alle persone con disabilità [così nel testo, N.d.R.] procedendo ad una completa revisione delle leggi esistenti e garantendo che ogni scelta del legislatore si collochi sempre nell’ambito di una piena consapevolezza che «le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri».
Dichiarazione di principio apprezzabile, per altro già sottoscritta dall’Italia all’atto della ratifica della citata Convenzione ONU. Quindi nulla di nuovo rispetto alle precedenti compagini governative. Mancano però le indicazioni attuative, i tempi, le modalità. In questo passaggio sarebbe stato molto calzante e risolutivo il richiamo al Programma di Azione biennale e l’adesione alle citate Raccomandazioni (2016) del Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Per assicurare protezione e inclusione ai soggetti con disabilità o non autosufficienti è necessario superare la frammentazione dell’intervento pubblico nazionale e locale, attraverso una governance coordinata e condivisa sugli interventi e la messa in rete degli erogatori degli interventi.
Un’affermazione interessante e a tratti condivisibile: frammentazione e governance sono aspetti sicuramente da aggredire, ma ciò impone di affrontare due aspetti invece sottaciuti: i Livelli Essenziali di Assistenza anche in àmbito sociale (ancora grandi assenti) e un “problemino” costituzionale riconducibile alle competenze esclusive lasciate alle Regioni.
Non è ben chiaro, poi, se la «messa in rete degli erogatori degli interventi» sia mirata all’appropriatezza degli stessi oppure all’ottimizzazione o ancora alla libertà di scelta.
(Nota sul linguaggio: le persone con disabilità diventano soggetti).
Bisogna assicurare il tempestivo aggiornamento delle agevolazioni per l’acquisto di beni e ausili per le persone con disabilità.
Passaggio piuttosto vago e scollegato dal resto. Le agevolazioni note per l’acquisto di beni e ausili per le persone con disabilità riguardano l’ambito delle agevolazioni IVA e le detrazioni IRPEF (queste ultime, per altro, escludono gli incapienti). Non è ben chiaro quale sia l’intento. Ampliarle? Restringerle? Ottimizzarle? Oppure è un riferimento espresso scorrettamente riguardo alla fornitura di ausili?
Deve essere garantita l’inclusione scolastica degli studenti con disabilità, attraverso una «reale specializzazione» degli insegnanti per il sostegno e l’implementazione della loro presenza in aula. Si dovranno individuare percorsi di aggiornamento per i docenti curricolari e per tutte le figure presenti nella scuola.
Anche in questo caso i contraenti sembrano non essere a conoscenza dei contenuti del Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 66 (Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità), applicativo della Legge 13 luglio 2015, n. 107 (cosiddetta La Buona Scuola). E ancora del Decreto Legislativo 13 aprile 2017, n. 59 (Formazione iniziale e in ruolo). Affermazione simile è ripresa nel paragrafo relativo alla scuola.
Nessun riferimento invece all’assistenza all’autonomia e alla comunicazione, nonché al trasporto scolastico, cioè quegli aspetti organizzativi che incidono sulla reale inclusione scolastica.
Bisogna fare una ricognizione dello stato di attuazione della Legge 68/99 sul collocamento al lavoro delle categorie protette, con una particolare attenzione per le disabilità gravi, assicurandone il rispetto nel pubblico e incentivando il privato e, se necessario, contemplando percorsi lavorativi specifici per disabilità fisiche o psichiche.
Ritorna l’amnesia. Si dimenticano i primi 15 articoli del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151 (attuativo del Jobs Act) e in particolare l’articolo 8 che istituisce la Banca Dati del Collocamento Mirato opportunamente incardinata nella Banca Dati Politiche Attive e Passive. E in àmbito di comparto pubblico si scorda la “Riforma Madia” (Legge 7 agosto 2015, n. 124, in particolare l’articolo 17, comma 1, lettera n) e il Decreto Legislativo 25 maggio 2017, n. 75 (in particolare l’articolo 10), che hanno già imposto gran parte delle misure ritenute futuribili e perseguibili dal contratto.
È necessario garantire l’accessibilità di luoghi, beni e servizi attraverso un effettivo abbattimento delle barriere architettoniche, contemplando anche un audit civico nella realizzazione di opere pubbliche.
Non è ben chiaro come si intenda garantire questa condizione, per altro già ampiamente prevista dalla normativa vigente. Il richiamo all’abbattimento delle barriere architettoniche appare semanticamente un po’ datato. Non che l’eliminazione di ostacoli fisici, l’adozione di segnalazione e accorgimenti che consentano la mobilità in sicurezza e in autonomia non siano importanti, ma il concetto e il principio di Universal Design è ormai pregnante in tutta la normativa di origine internazionale e di àmbito comunitario.
Ci si sarebbe poi attesi da questi contraenti un riferimento al Codice degli Appalti, che oltre a un forte richiamo alla trasparenza, impone il rispetto di tutta la normativa tecnica sull’accessibilità nella sua accezione più ampia.
Occorre implementare una politica per l’abitare che favorisca l’accesso delle persone con disabilità ad abitazioni di recente concezione/costruzione. Servono politiche di housing sociale che coinvolgano il privato e introducano negli oneri di urbanizzazione delle quote da riservarsi alle persone con disabilità.
Si tratta di un passaggio alquanto oscuro. Non è chiaro se ci si stia riferendo all’accessibilità e disponibilità di alloggi (e quindi alla loro riserva) o a qualcosa di diverso.
Bisogna favorire il cohousing e organizzare corsi di formazione specifica, tenuti da personale sanitario e tramite incontri di automutuoaiuto, per aumentare conoscenze e competenze dei caregivers.
Questa è un’indicazione piuttosto abborracciata che mescola temi come quelli del co-housing [abitazione condivisa, N.d.R.] con quello dei caregiver (familiari?).
Circa il primo non si intende perché dovrebbe essere favorito il co-housing al posto di più generali e concreti servizi di sostegno all’abitare in autonomia, soprattutto tenuto conto delle indicazioni dell’articolo 19 della Convenzione ONU («Diritto a scegliere dove vivere e con chi vivere»).
Sui caregiver, poi, non si possono che nutrire perplessità. Usciamo da una Legislatura che ha visto un’ampia discussione su questo tema. Al Senato erano giacenti tre Disegni di Legge che recavano la firma di oltre la metà dei Senatori, molti iscritti alla Lega o al Movimento 5 Stelle. Si è giunti ad un, pur discusso, Testo Unificato, senza giungere all’approvazione nemmeno in Commissione. Questo per dire che è un’istanza nota, con richieste forti e diversificate, che vanno ben al di là della mera organizzazione di forme di automutuoaiuto o di formazione sanitaria. In molti rimarranno assai delusi per come queste istanze vengono liquidate.
È necessario garantire la completa accessibilità dei contenuti e documenti della PA [Pubblica Amministrazione, N.d.R.], in ottemperanza alla Direttiva UE 2016/2102 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 ottobre 2016, relativa all’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici.
I riferimenti che impongono l’accessibilità di servizi, contenuti e documenti della Pubblica Amministrazione sono ben precedenti alla, pur rilevantissima, Direttiva Europea 2016/12. Ancora una volta, poi, manca un riferimento, anche minimo, all’operatività che consenta di non annoverare quel periodo fra le mere espressioni di principio.
Inoltre, al fine di dare adeguata rappresentanza alla disabilità nell’agenda politica, ci impegnamo ad istituire un dicastero dedicato.
Si dovrà infine garantire un’adeguata rappresentanza nell’ambito della compagine governativa oltreché il Garante regionale quale figura di riferimento al quale rivolgersi in caso di inadempienze e violazioni dei diritti delle persone con disabilità.
Sulla scelta strategica di istituire un Dicastero specifico (che sarà senza portafoglio) ci sarà molto da discutere e riflettere.
In linea di principio (non tanto di chi scrive, ma della stessa Convenzione ONU) la prospettiva della disabilità dovrebbe permeare tutte le politiche e i servizi. Qualcuno usava un azzeccato slogan: «La disabilità non è un mondo a parte, ma una parte del mondo». Il senso del Dicastero qual è quindi? Una cabina di regia? Con quali poteri e con quali margini di azione? Oppure sarà un Dipartimento nel quale confinare alcune politiche? È davvero necessario, al di là della valenza politica dello stesso, istituire un Ministero vero e proprio?
Rimane poi il dubbio, operativo e ancora una volta politico, delle relazioni che questo Ministero manterrà con altri dipartimenti e organismi già funzionanti: dall’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, a quello per l’Inclusione Scolastica, ai diversi Tavoli di Lavoro su vari àmbiti, e con i Dipartimenti del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. In sintesi: quale sarà il suo effettivo peso specifico?
Sorvoliamo invece sulla figura del Garante regionale. Trattandosi di un’istituzione incardinata nelle singole Regioni, abbiamo molti dubbi che possa essere imposta o prevista da una disposizione nazionale.
In tutto questo manca completamente il riconoscimento e la partecipazione delle organizzazioni delle persone con disabilità nella definizione (mainstreaming) delle politiche e delle azioni che riguardano le persone. Anche questo rappresenterebbe un vulnus, oltre che una violazione, dei princìpi e delle indicazioni della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Abbiamo ragione di ritenere che questo contratto sarà oggetto di specifiche ulteriori elaborazioni, anche se non è dato immaginare quali direzioni o gemmazioni potranno generare. Per ora restiamo in attesa degli sviluppi politici e propositivi.