Ricordo con emozione e un pizzico di nostalgia quel primo convegno che si svolse in Sardegna: le lunghe chiacchierate telefoniche con Giancarlo [Loddo, fondatore e presidente dell’Associazione Pianeta Persona di Cagliari, N.d.R.], il fruttuoso scambio di pensieri e riflessioni attraverso il quale costruimmo l’idea del convegno Chiari per Natura, il mio primo viaggio in aereo, i contrattempi e gli imprevisti e il saperci riadattare e ricalibrare con creatività… [il convegno cui si fa riferimento si è tenuto l’8-10 maggio 2009 a Villanovaforru nel Medio Campidano. Se ne legga a questo link, N.d.R.].
Porto in me soprattutto, ancora oggi, quella strana sensazione di vedermi come in uno specchio, di fronte a tanti albini: “uguale” e diversa da ciascuno di loro!
Credo proprio che molta della mia consapevolezza di cosa significhi profondamente essere un’albina, sia scaturita da quel primo convegno del 2009.
È stato il confronto con le persone simili a me: ascoltarle, osservarle, fare domande, che mi ha portata a cogliere profondamente i miei limiti, la mia “diversità” e le mie risorse.
Pian piano, nel corso di questo decennio, fra incontri formali e informali, con albini e non, grazie anche alla preziosa esperienza del forum del sito Albinismo.eu, mi sto muovendo sempre più nell’ottica di un’integrazione interiore.
Le diversità di cui noi albini siamo portatori, come ipovisione e peculiarità fisiche (depigmentazione di cute, capelli e occhi), oggi possono essere gestite con più facilità rispetto al passato, grazie ad ausili visivi e cosmetici, rendendoci così più accessibili esperienze e contesti.
Tuttavia la tanto auspicata “accessibilità”, se da un lato rende (o potrebbe rendere) facilitante un processo di integrazione sociale, se non accompagnata da un sano sviluppo di consapevolezza interiore, non può garantire automaticamente un autentico e duraturo “stato paritario” con chi non presenta le nostre difficoltà genetiche.
Tale stato paritario sarà la base per la realizzazione di un dinamico processo inclusivo, così importante oggi, all’interno dei contesti educativi.
Come in qualunque professione, così all’interno di ogni tipo di rapporto interpersonale non possono disgiungersi un “saper fare” da un “saper essere”, perché ciò produrrebbe una sensazione di inadeguatezza interiore talmente profonda che inevitabilmente peserebbe sia sulla qualità del proprio lavoro che su quella delle proprie relazioni.
Ogni essere umano presenta un proprio sistema di riferimento interno, un proprio programma di vita, di cui a volte non ha piena consapevolezza, che potremmo definire come un “copione”. Questo copione contiene pensieri , idee, convinzioni su se stessi, sugli altri, sulla realtà, permessi e proibizioni, e si delinea, si costruisce fin dalla nascita, in virtù delle peculiarità delle interazioni con le figure significative (genitori, educatori, parenti stretti, coetanei).
L’adulto, quindi, porta dentro di sé un’immagine personalissima sul come si vede, sul come si percepisce e sul modo in cui suppone possano percepirlo gli altri.
Tutti noi adulti, assieme alle nostre competenze di grandi, portiamo, chi più chi meno, quel “bambino cronologico” (magari anacronistico), ma non meno reale, frutto del come siamo stati trattati, considerati, accolti e dell’idea che ci siamo costruiti in merito ad alcune reazioni dell’ambiente intorno a noi.
Un handicap – come nel nostro caso può essere l’ipovisione – insieme alla particolarità della nostra immagine esteriore, certamente ha giocato un suo ruolo nel caratterizzare la formazione di una certa immagine interiore.
Qui faccio un inciso personale che può aiutare a capire il concetto sopra espresso. Ci sono state, e a volte ancora ci sono, delle situazioni nella mia vita privata e professionale, in cui la bambina che mi porto dentro, frutto di una sua storia, si spaventa o si sente a disagio rispetto a una situazione sociale facilmente gestibile grazie a tecnologie avanzate e a strategie acquisite.
Sono momenti emotivi, a volte intensi, in cui mi dico cose negative su di me e mi rattristo, perché quella bambina di 3, di 6 o di 11 anni, fa capolino e come un elastico mi “stacco” emozionalmente dal “qui ed ora” di donna adulta e professionista, tornando ad un “lì e allora” di una scena di isolamento e discriminazione causata dall’ignoranza relativa alla mia diversità.
Bisogna prendersi cura del nostro bambino interiore: ascoltarlo, stargli vicino e come un buon genitore affettivo positivo e normativo positivo, svezzarlo, insegnargli a crescere e a diventare un adulto sempre capace di ascolto e cura del bambino.
Ecco in cosa consiste il “saper essere”, l’aversi a cuore: in un processo di consapevolezza del nostro mondo interno, delle nostre radici. Senza memoria delle radici, non possono esserci frutti maturi.
Tutta la nuova tecnologia supportiva rappresenta veramente un’ottima strategia per l’integrazione sociale? Di certo agevolerà quel “saper fare” che aiuta a stancarci meno sia nel quotidiano che nello straordinario della nostra vita. La vera e duratura integrazione sociale, però, passa attraverso “l’aversi a cuore”, riconoscendo il proprio mondo interno e lavorando sulla propria storia interiore.
Il mestiere di vivere, molto distante da quello del sopravvivere, richiede tempo e attenzione, aggiustamenti e revisioni, strategie interne ed esterne : un permanente dialogo fra la complessità del mondo interno di cui siamo portatori e quella di un mondo intorno a noi che ci chiede competenza e velocità nello stare al passo con i cambiamenti sempre più (e purtroppo) convulsamente veloci!
In questi dieci anni, grazie al servizio di co-gestione del forum con Isabella e Giancarlo [rispettivamente Isabella Macchiarulo e Giancarlo Loddo, N.d.R.], ho potuto constatare il valore e l’efficacia che assume il confrontarsi con persone simili a noi nella genetica.
Il confronto come risorsa apre l’orizzonte, allenta le tensioni e può ridimensionare le paure, sempre che non divenga un alibi per crogiolarsi nei propri limiti.
Il confronto deve poter rappresentare non solo un “nido sicuro”, ma un ponte per l’integrazione, per essere da pari a pari con chi non presenta questa anomalia genetica.
Il tema scelto per questo convegno [“Albinismo e ipovisione: strategie per l’integrazione”, N.d.R.] mi sembra molto interessante e ricco di spunti per una riflessione su un’idea di integrazione che va oltre quella di tipo sociale/professionale e che apre considerazioni più ampie in merito al significato di inclusione come processo dinamico permanente, prima di tutto interno a noi.
Io credo di occupare una posizione molto particolare e privilegiata poiché sono sia un’albina con ipovisione, che una psicoterapeuta e mi trovo a vivere nell’epoca digitale, circondata da tanta tecnologia supportiva, ma nata in un periodo in cui gli unici ausili erano le lenti di ingrandimento e la “buona volontà” di insegnanti e genitori.
Nascere con un deficit, di qualunque tipo esso sia, rappresenta una condizione di svantaggio a livello sociale, non possiamo negarlo. Tale diversità, o differente abilità, non può e non dovrebbe rappresentare un elemento discriminante per il soggetto che ne è portatore, ma purtroppo non è sempre così! Ecco che allora una costruttiva integrazione interiore potrà rappresentare la nostra “base sicura”, da cui attingere forza e risorse soprattutto nei periodi difficili, quando il vento della vita soffia contro.
L’albinismo
È un’anomalia genetica che si presenta con ipopigmentazione e può interessare la cute, i capelli e gli occhi (albinismo oculo-cutaneo), oppure limitarsi principalmente agli occhi (albinismo oculare). È caratterizzato sostanzialmente da un difetto nella biosintesi e nella distribuzione della melanina, che normalmente determina la pigmentazione visibile di cute, capelli e occhi. L’incidenza è di 1 su 20.000 nati, ma raggiunge il valore di 1 su 12.000 fra gli afro-americani degli Stati Uniti e in certe zone dell’Africa, come il Niger, arriva addirittura a 1 su 1.000.
Si tratta di un problema che può creare gravissime situazioni di discriminazione, fino alla soppressione fisica, particolarmente in alcune zone del mondo, e segnatamente in vaste aree dell’Africa, soprattutto Subsahariana, dove la credenza locale attribuisce ancora poteri magici di vario genere agli organi delle persone albine (si legga, a tal proposito, l’articolo di Matteo Fraschini Koffii, intitolato Albini d’Africa).
In Italia, naturalmente, e nel mondo occidentale in genere, la situazione non è così drammatica, ma anche da noi c’è molto da lavorare, a livello di discriminazione sociale, per sensibilizzare l’opinione pubblica sui vari problemi e limiti inerenti l’albinismo.