Nell’antichità – senza voler fare un trattato antropologico o storico sulla disabilità – il soggetto con menomazioni fisiche, cognitive o psichiche veniva emarginato alla periferia della società. Successivamente, con il radicarsi nell’uomo di credenze mistiche, questa condizione di vita è stata indirizzata verso il “buonismo”, la condivisione e le opere di bene. In questo modo l’individuo acquistava un valore nella società, gli veniva riconosciuta una finalità, che diventava motivo di un inizio d’integrazione, ma per l’altro, per chi assisteva l’individuo emarginato, finiva per trasformarsi in una sorta di “assistenzialismo”. E tuttavia, a ben vedere, lo svantaggiato rimaneva ancora il soggetto della questione, ma non certo l’oggetto del desiderio. In passato, infatti, la persona con difficoltà era chiamata “il mostro”, ovvero “colui che veniva mostrato”, il “sub-normale” e così via. Fino ad arrivare al termine “disabile”, sul quale ora mi vorrei soffermare.
Proviamo a questo punto a fare un passo successivo, rifacendoci a quella “nuova pedagogia della disabilità” di cui ho già avuto più volte occasione di scrivere anche su queste pagine.
Un individuo, pur vivendo su una carrozzina, non è un disabile, è la situazione in cui cresce, vive, nella quale forma la propria sfera relazionale, con tutti gli ostacoli strutturali e architettonici, a creargli un contesto disabilitante. In quell’ambiente, non riesce a vivere la sua “persona”, ma vive il corpo che affronta la disabilità.
Sovente si pensa che la “persona” e il suo “corpo” siano un tutt’uno, ma la persona non è la sua disabilità e di conseguenza il soggetto non si può definire disabile. Se osservassimo qualcuno nella carrozzina, diremmo subito che «quello è un disabile», ma se ci sapessimo veramente relazionare con lui o con lei solamente nel contesto “persona”, non lo vedremmo più come un disabile: sarebbe semplicemente una persona. E con il termine “persona” intendo affetti, relazione, sentimento e tutto ciò che si costruisce un individuo intorno a sé. E in tutto questo la sua disabilità non è presente.
Oggi, in un contesto sociale competitivo come quello attuale, è ovvio che quello è un corpo “disabilizzato”; ma non disabile. Se il termine “disabile” lo guardassimo in senso etimologico, vedremmo che vuol dire “non-abile”. Ma non abile a cosa? Non abile a chi? Non abile perché? Se facessimo veramente queste tre distinzioni, vedremmo che una buona parte della società è disabile.
Allora, analizzando tutto il pensiero antropologico e – mi si permetta – filosofico della disabilità, possiamo arrivare a dire che è il soggetto in carrozzina che subisce un quadro complessivo disabilizzato, e dunque, come soggetto, non è un disabile, ma solo una “persona” nella sua totalità.
Ebbene, dopo decenni di lotte contro ogni tipo di emarginazione o esclusione dell’individuo con disabilità, per affermare i suoi diritti e la sua dignità come cittadino e come persona, egli non ha bisogno di essere integrato o incluso; perché la persona che è in un contesto disabilizzante fa già parte di questo tessuto sociale, è già parte attiva di esso. E invece il nuovo Governo cosa fa? Crea il Ministero per le Disabilità, gettando all’aria, in tal modo, anni di lavoro e di convegni, di associazionismo; creando distanze culturali e di pensiero.
Se si pensa infatti che la persona disabile abbia bisogno di un suo Ministero, vuol dire che anche oggi la persona che vive nella disabilità viene presentata alla società come una “parte diversa del tutto”. Allora vorrei dire a gran voce: no, grazie!
Arrivati a questo punto, ci piace pensare alla persona con disabilità come a un individuo nella sua unicità, e non come a un soggetto sempre da ospedalizzare, accudire, compatire o sempre passivo e mai attivo.
Il disabile lo si vede sempre come “qualcuno da educare”, escludendo il fatto che egli sia in grado di formulare un pensiero attivo e di comprendere la realtà che lo circonda. Di conseguenza si può dire che ogni persona che vive in un contesto di disabilità – nel modo che si è visto anche in miei precedenti articoli – ha bisogno di affetto, di sessualità, e ormai chi conosce il mio pensiero sa già come uso, in queste circostanze, la parola “sessualità”.
Seguendo però i molti articoli su questo tema, leggo ultimamente che l’“assistenza sessuale” non viene più chiamata così, ma viene definita come “assistenza all’emotività”.
Partendo dall’ipotesi che abbiamo percorso finora, che il soggetto in carrozzina sia costretto a vivere una situazione disabilizzante, ma che prima di tutto sia una persona, perché dovrebbe avere bisogno di un’assistenza all’emotività? Mi sembra un po’ riduttivo. Se infatti il disabile ha bisogno di un’assistenza all’emotività, seguendo l’ipotesi di chi sostiene questa tesi, posso arrivare a dire che tutti abbiano bisogno di un’“assistenza all’emotività”! E quale potrebbe essere il percorso pedagogico per educare l’altro all’emotività? E dove potrei trovare questo illustre pedagogista che ci educhi all’emotività?
Mi piacerebbe invece sperare che ognuno avesse la sua emotività, cresciuta ed esplorata nelle stagioni della propria vita, e che la vivesse al meglio delle sue possibilità; e quindi che anche la persona che vive in una situazione disabilizzante la potesse creare con le sue forze.