In riferimento alla tragica vicenda di Mandas, in provincia di Cagliari, dove una donna ha ucciso i suoi due figli gemelli di 42 anni, con disabilità e allettati, per poi togliersi la vita, riceviamo e ben volentieri pubblichiamo le autorevoli opinioni di Veronica Asara, portavoce del Comitato dei Familiari per l’Attuazione della Legge 162/98 in Sardegna e di Benedetta Demartis, presidente nazionale dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici).
Ieri si sono svolte le esequie dei due ragazzi con disabilità e della loro madre, protagonisti della tragica vicenda accaduta nel piccolo paese di Mandas in provincia di Cagliari.
Abbiamo atteso che l’onda emotiva trasmessa mediaticamente si assopisse, giacché non è facile esprimersi su vicende di cronaca così drammatiche, sul dolore e lo sgomento di un fatto che colpisce una famiglia a noi vicina per condizione e territorio.
Prima di ogni altra cosa, vogliamo rimarcare la nostra vicinanza alla comunità di Mandas e alla famiglia, che stanno dolorosamente vivendo questo grave lutto.
I dettagli di questo terribile avvenimento saranno chiariti dalle autorità competenti, che ne dovranno stabilire dinamiche e cause. Eppure ora, qualche parola bisogna spenderla, perché c’è chi, anche innanzi a queste immani tragedie, non perde l’occasione per speculare sul dolore e sulla disgrazia.
Decisamente deludente è stata la repentina reazione a questa tragedia da parte di molte persone – più o meno note – specialmente sui social network, e sorprende che alcune volte provenga da ambienti vicini e operanti nel mondo della disabilità. Prima ancora che i fatti, nella loro drammaticità, fossero stati appurati, si è sollevato un polverone di accuse, un processo sommario alle Istituzioni assenti, alla mancanza di servizi e alle prassi sociali sarde.
Abbiamo letto una sequela di messaggi potenzialmente pericolosi che rimandavano all’uso del fucile da caccia come scelta risolutiva per il “Dopo di Noi” e dichiarazioni in cui si definiva un atto di disperazione come “atto d’amore”. Tutto ciò potrebbe facilmente alimentare pensieri deleteri in persone già provate e stanche, portandole persino a credere che un omicidio/suicidio sia un atto da compiere per amore; idee, tra l’altro, che neutralizzano il retropensiero della lotta per i diritti delle persone con disabilità, che fa del dibattito, del confronto con le Istituzioni e con la Società Civile, un punto cardine per il miglioramento della qualità della vita.
Si sono giustamente riaccesi i riflettori sulla questione “Dopo di Noi” e su quella delle condizioni di vita dei caregiver, che assistono persone con grave disabilità.
Ogni genitore vive nella preoccupazione di cosa sarà dopo la sua morte, di dove e come i nostri figli con disabilità vivranno; vive e convive con noi il timore dell’abbandono in strutture segreganti, in cui la qualità della vita familiare o comunitaria sarà solo un ricordo.
Riaffiorano così immagini di violenze fisiche e psicologiche in strutture pensate per la permanenza di persone con disabilità, destinate al puro accudimento – talvolta neanche a quello – l’idea di una vita in luoghi di mero collocamento.
Le richieste per il “Dopo di Noi” devono trovare risposta nel “Durante Noi”; la normativa nazionale (Legge 112/16) – che dalla sua entrata in vigore ha acceso un dibattito tra chi ritiene che risponda solo parzialmente alle esigenze reali, e chi la ritiene, al contrario, un’occasione – deve ancora trovare attuazione sui territori, ma le Istituzioni Regionali sono lente nell’accoglierla e nel renderla operativa.
La Sardegna ha stanziato 4 milioni di euro nel 2017, da destinare ai progetti in due anni, ma nessun progetto è ancora partito; dunque c’è molto da fare e come Associazioni abbiamo il dovere di esigere tempi celeri, mentre le Istituzioni, dal canto loro, hanno il dovere di tagliare i lunghissimi tempi burocratici.
Malgrado le criticità, la Sardegna è un territorio in cui l’investimento per la disabilità è importante, una terra di lunga tradizione sui progetti personalizzati, sull’assistenza per la disabilità grave e gravissima, in particolare con la Legge 162/98 e il Progetto RAC (Ritornare a Casa).
I progetti personalizzati come da Legge 162/98 danno oggi risposte a 38.000 famiglie con disabilità grave, un sostegno dal quale nessuno di noi può prescindere, un sistema che porta con sé una forma mentis che è cultura dell’accoglienza della disabilità. Il RAC permette a moltissimi disabili gravissimi di stare in famiglia anziché tra le fredde mura di una RSA [Residenza Sanitaria Assistenziale, N.d.R.]o di una rianimazione.
Il modello è certamente da migliorare, ogni cosa è perfettibile, il “modello Sardegna” lo è a sua volta e i nostri sforzi sono rivolti alla collaborazione fattiva con le Istituzioni, per apportare modifiche che siano migliorative e per limitare i disagi che le ruggini degli ingranaggi burocratici possono causare.
Il sistema sardo rappresenta un bagaglio prezioso per tracciare le politiche future per un welfare orientato all’inclusione sociale e alla promozione dell’autodeterminazione delle persone con disabilità, anche per ciò che concerne il “Dopo di Noi” e in ottemperanza alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
Concludendo, l’uso strumentale di questa triste vicenda orientata ad ottenere likes sui social, a denigrare sistemi assistenziali, a lanciare messaggi gravemente deleteri o anche solo frettolosi, senza la minima conoscenza della realtà dei fatti, doveva essere evitato per riguardo alle persone coinvolte. Si sarebbe potuto scegliere un silenzioso cordoglio e sarebbe stato utile aprire un dibattito su questi importantissimi temi, solo dopo avere verificato e capito le peculiarità di questo caso, magari a mente fredda e non sull’onda dell’emotività, che è foriera di giudizi facili e altrettanto facili errori.
Veronica Asara
Portavoce del Comitato dei Familiari per l’Attuazione della Legge 162/98 in Sardegna
Ancora un dramma che riguarda la disabilità. Una madre in Sardegna uccide col fucile i suoi gemelli disabili di 42 anni. Leggendo altre fonti sembra non si tratti di abbandono e solitudine. Non in questo caso.
Mi torna in mente l’altro dramma successo in provincia di Novara solo qualche anno fa. Anche in quel caso sembra ci fosse l’assistenza indiretta in denaro. Una sorella medico molto presente. Famiglia allargata e servizi sociali.
Proprio come per il papà di quella vicenda, credo si tratti di depressione. Quel male di vivere di cui soffrono un gran numero di persone. Posso solo dire che a peggiorare il quadro ci sono certe disabilità che mettono a dura prova l’equilibrio psichico più di altre disabilità.
È un destino infame quello di chi ama, perché non permette di uscire da quel “ricatto emotivo” che l’amore ci fa provare con i nostri cari più fragili.
Dobbiamo noi genitori, figli o fratelli imparare ad allontanarci un poco da loro, fare altro, parlare d’altro, per riprendere linfa vitale. Lo dobbiamo fare per “durare” più a lungo nel tempo e per concederci un poco di normalità. E per permettere ai nostri cari di vivere altre relazioni, altrettanto importanti.
Certo che fuori casa ci servono altri supporti, altrimenti ci sentiremo e diventeremo indispensabili. Ma crolleremo prima, inevitabilmente. Dobbiamo invece, come dovere sociale, costruire i supporti per il sostegno alla persona fragile e alla sua famiglia. Altrimenti succederà ancora, e ancora…
Benedetta Demartis
Presidente nazionale dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici)