Non tutte le lacrime sono uguali. Oggi torno a scrivere di antropologia della disabilità. Un parolone, anzi due, per riflettere con linguaggio facile sull’effetto “lacrima da reazione”, di fronte a quello che sulla disabilità passa in TV nei talent. Non sono un dottore della psiche. Mi limito a qualche pensiero che credo possa venire a tutti.
Già in passato, su queste stesse pagine, ho affrontato il tema delle emozioni da poltrona. Era un pezzo sulla coerenza di chi guarda le esibizioni di certi partecipanti con disabilità ai talent, apprezza, si commuove, esulta e, uscito dagli studi televisivi, allontanato dallo schermo e mollato il telefonino del televoto, riprende a condurre la sua vita di ordinario bistrattamento dei diritti delle persone con disabilità.
Lontano dallo schermo, che ci avvicina a una storia, ma ci tiene lontano quanto basta per lasciarla estranea da noi, parcheggiamo la macchina negli stalli riservati, sosteniamo gite scolastiche dove in carrozzina non si arriverà mai e osteggiamo l’abbattimento delle barriere nel nostro condominio. E non puliamo il marciapiede dalle deiezioni del nostro cane…
Qualche settimana fa, guardando Tu sì que vales su Canale 5, all’immancabile esibizione di un protagonista legato alla disabilità, senza sottilizzare troppo che fosse lì perché fra tanti che si esibiscono è naturale che alcuni siano disabili, piuttosto che pensare (male) che fosse lì perché “la disabilità tira”, mi sono riproposto di non scriverne. Ma subito ho cambiato idea.
Assistendo all’esibizione dei bravi Orchestra Magicamusica, gruppo musicale di persone con disabilità – ma non bisogna dimenticare che attorno a quelle persone ci sono anche amici, parenti, insegnanti scolastici e via dicendo -, hanno iniziato a scorrere rivoli di lacrime da differenti sorgenti: Belén Rodriguez, Iva Zanicchi, il massiccio Martín Castrogiovanni, Gerry Scotti. Spontanea sorgiva, è affiorata in me una serie di domande.
Può una lacrima essere sincera in televisione? Può essere indotta, cioè non finta, tuttavia provocata? Ma soprattutto: la lacrima deve per forza condurre all’esito che ci aspettiamo? Prima di un voto, deve per forza preludere a un voto favorevole? E se sì, perché?
Le lacrime prima di un voto presagiscono una partecipazione narrativa che difficilmente porta ad altro che a un voto di condivisione di quell’esperienza, è un meccanismo naturale. Vale l’equazione pianto uguale voto favorevole alla prova. Ma perché piangiamo di fronte a una manifestazione dolorosa ma vincente della disabilità?
Non lo so, ma azzardo le ipotesi che mi sono venute in mente assistendo allo spettacolo.
Forse piangiamo per pietismo: quella disabilità è lontana da noi, ci sembra uno scarto di fronte al quale non sappiamo fare altro che commiserare, è un naturale atto di ipocrisia figlio della nostra educazione. Piangiamo e sosteniamo la causa.
Forse piangiamo per pietà: la compassione, nella sua accezione originale, spinge alla partecipazione, pertanto proviamo dispiacere per le persone coinvolte e sentiamo il bisogno di interagire. Il voto positivo diventa una maniera per dare una mano.
Forse piangiamo per immedesimazione: indossiamo i panni di quella persona, oppure la eleviamo a nostro emblema, e nella sua capacità di reazione alle sventure, ci sentiamo incoraggiati nelle nostre difficoltà quotidiane, così diverse, ma così altrettanto insostenibili. In questo caso il sostegno a quella causa diventa materiale di conforto per noi stessi. Votiamo a favore dell’altro come lo facessimo per incentivarci da soli.
O forse, se siamo personaggi noti, piangiamo perché riconosciamo che l’esistenza è stata prodiga con noi e quindi ci sentiamo spinti all’altruismo di compensazione, e non che questo sia malvagio, col voto positivo che ne consegue. Oppure rivestiamo un ruolo e piangiamo perché dobbiamo farlo. Tanto quanto il ruolo ci obbliga a votare favorevolmente.
Che sia amore, convenienza, senso civico, camuffato disprezzo o copertura del ruolo, non sappiamo cosa vogliano dire certe lacrime in televisione. E tantomeno possiamo attribuire un significato alle lacrime sparse ogni giorno di fronte agli altrui fatti della vita. Sappiamo solo che non sempre rappresentano ipocrisia, il male assoluto.