Nel testo di recente pubblicazione, intitolato Divers-abilità: invenzioni per rendersi felici. Empatia, autodeterminazione e resilienza, sorta di summa di psicologia della disabilità, Lelio Bizzarri tocca vari punti salienti, che caratterizzano questo àmbito di studi.
Spiega la diversità inquadrandola anzitutto in una cornice storico-sociale, mettendo in luce le ricadute culturali e come queste si traducano nel pensiero dell’uomo comune, nelle azioni quotidiane di chi svolge una professione di aiuto in favore di persone con disabilità, dei loro familiari o ancora di coloro che promulgano leggi sulla disabilità. Ogni aspetto è trattato alla luce dell’autodeterminazione, auspicabile quanto possibile.
Con precisione certosina, viene poi trattato il tema della psicoterapia, dei fattori patogenetici e dei relativi piani di intervento, rivedendo e approfondendo alcuni inquadramenti diagnostici, tenendo conto, in tal senso, del rebound (“ricaduta”) della disabilità; troviamo quindi spunti estremamente interessanti per tutti gli psicologi e psicoterapeuti che operano in questo campo.
In modo delicato, quindi, ma al tempo stesso chiaro ed esaustivo, l’Autore tratta il tema dell’amore e del sesso disabile. In questo periodo storico, dove sembra che molti tabù stiano lasciando il passo all’apertura, dove si parla di “assistenza sessuale”, Bizzarri si fa promotore di un’altra possibilità, quella di amare ed essere amati, oltre le barriere, oltre l’incredulità del prossimo, sventolando la bandiera dell’autodeterminazione, dimostrando che l’amore non ha pregiudizi. Non tralascia, allo stesso tempo, un aspetto di perversione che riguarda anche le persone con disabilità, come chiunque altro si approcci al sesso. Tratta cioè il tema del devotismo, specifica parafilia relativa all’handicap [se ne legga già anche su queste pagine, N.d.R.].
E ancora, con l’argomento del “Dopo di Noi”, apre alla conoscenza le porte spesso chiuse delle famiglie, come si vive occupandosi costantemente di un familiare con disabilità, come si cresce quando tuo fratello o tua sorella è disabile, come si invecchia sapendo di lasciare un figlio che non è in grado di badare a se stesso in piena autonomia. Mette in evidenza come il Legislatore sia spesso sprovvisto di quelle conoscenze specifiche che gli consentirebbero di promuovere leggi ad hoc per la disabilità e fornisce alcuni spunti migliorativi.
Ogni tema è trattato con estrema lucidità e onestà intellettuale, talché scorrendo le pagine non si percepisce mai un atteggiamento compassionevole o vittimistico; l’autodeterminazione, infatti, è la chiave di lettura con cui approssimarsi a questo volume: né angeli né demoni, ma solo persone con disabilità!
Bizzarri, dunque, mette in luce molti punti che restano in ombra, ma soprattutto offre una possibilità su come affrontare la disabilità e non esserne vittima. Ne abbiamo parlato direttamente con lui.
Come nasce questo volume?
«Nasce da quindici anni di lavoro di formazione, conduzione di gruppi, colloqui clinici e psicoterapeutici con tante persone che, a diverso titolo, convivono con la dimensione della disabilità. L’attività professionale che ho il privilegio di svolgere mi ha insegnato che nella molteplicità di mondi che gravitano in questo universo c’è sempre un filo conduttore: la ricerca costante dell’andare oltre la sopravvivenza, il voler realizzare sogni e progetti di vita, nonostante le difficoltà poste dalla disabilità. Le storie di vita che ho ascoltato e a cui ho partecipato attraverso il mio contributo professionale sono sì costellate di tante difficoltà e qualche fallimento, ma anche di successi e tanta determinazione. Ho voluto dunque con questo libro tesorizzare questi insegnamenti e metterli a disposizione di colleghi e persone che vivendo l’handicap a titolo personale potessero trarre spunto da esso per avviare un percorso di crescita o alimentare la speranza nella felicità.
Lasciami dire che c’è anche un po’ di me, del lavoro psicoterapeutico su me stesso e della mia formazione. Insomma, è un libro collettivo la cui sintesi non ha la presunzione di essere la ricetta per tutti, ma solo un punto di vista alternativo».
Leggendo il libro, la disabilità sembra non essere la reale limitazione ad affermarsi come individuo nella vita, sembra che la vera limitazione sia la mancanza di autodeterminazione, è così?
«Non porrei la questione in termini di “vero” o “falso”, di “reale” o “irreale”. Le difficoltà legate ai limiti fisici, strutturali ed economici sono tangibili. La tesi del libro è che molto spesso, piuttosto che ricercare soluzioni creative al superamento degli ostacoli, essi vengono assolutizzati e si trasformano in una gabbia mentale che scoraggia anche il solo pensare di poterli scavalcare o aggirare. Il considerare le difficoltà insormontabili si trasforma molto spesso in una dipendenza psicologica dall’altro, la quale non riguarda solo il bisogno di aiuto per fare le cose, ma anche la fase decisionale nella quale si dovrebbero scegliere liberamente le attività in cui cimentarsi o, più a lungo termine, gli obiettivi esistenziali.
La mancanza di autodeterminazione è l’anticamera del senso d’impotenza, della malinconia e all’estremo della disperazione. Essa è sicuramente un aspetto che determina grande sofferenza e che potenzialmente può fare ammalare».
Oltre che importanti spunti di riflessione per i professionisti, mi pare che ci sia anche un messaggio molto forte rivolto a tutti coloro che in qualche modo girano intorno alla disabilità: l’autodeterminazione non è preclusa alle persone disabili…
«Esattamente. D’altra parte, ciò non va inteso in senso rivendicativo o assolutistico. Riuscire ad autodeterminarsi richiede un processo di empowerment [crescita dell’autoconsapevolezza, N.d.R.] tanto a livello individuale che di rete: bisogna riuscire a trovare creativamente risorse individuali, di gruppo e di comunità, che diano quei gradi di libertà che servono per poter dare seguito alle scelte. Implica anche realismo negli obiettivi e concretezza di strategie per rendere i progetti realizzabili. Insomma, l’autodeterminazione deve smettere di essere considerata un’ideologia e deve diventare un’arte… e anche un po’ scienza».
Ci sono reperti che risalgono al Paleolitico Superiore che testimoniano come la comunità si occupasse di persone con disabilità e come queste fossero occupate nel contesto sociale dell’epoca a seconda delle proprie capacità. Cosa è successo dopo secondo te? Come siamo arrivati a tanta discriminazione e pregiudizio? Quanto ha influito la paura?
«È successo che ad un certo punto, per ragioni molto complesse e che racchiudono fattori antropologici, storici ed economici, si è affermata una cultura della competizione, della violenza, della forza e del dominio. In società come quella di Sparta e dell’Impero Romano, che si fondavano sulla capacità di sconfiggere i nemici e sottometterli, le persone che non potevano dare un contributo sotto il profilo della forza fisica non potevano avere un posto legittimo. È abbastanza indicativo a mio avviso che alla Rupe Tarpea, dalla quale venivano gettati i traditori e coloro che si rifiutavano di testimoniare, sia stato attribuito anche il mito, seppur non supportato da evidenze archeologiche, che dalla stessa venissero gettati anche i bambini deformi o disabili: ciò a mio avviso evidenzia come il nascere disabile è sempre stato vissuto come un tradimento verso la società, lo Stato… e forse anche verso la famiglia. Da lì in poi, credo che si sia cercato di tracciare un confine netto tra disabili e non disabili come forma di difesa dalla paura di essere stigmatizzati come persone fragili, deboli, malate e che quindi non potevano dare il proprio contributo: nel corso della vita chiunque può andare incontro ad una malattia. Pensare che invece si diventa disabili a causa di una colpa o di un peccato commessi dal disabile stesso o dai genitori, da un lato rassicura (basta non fare peccati e non si verrà investiti dalla disabilità), dall’altro giustifica la segregazione di cui sono state oggetto nei secoli le persone con disabilità. Le religioni congelano le vite di quest’ultimi in un ruolo sociale, quali oggetti passivi della carità altrui e di mera sopportazione della sofferenza».
Nel tuo libro parli di amore, cosa pensi dell’“assistenza sessuale”? È un’opportunità oppure una nuova frontiera della discriminazione?
«Sì, credo sia una forma di discriminazione, anzi probabilmente la più estrema, in quanto riguarda l’amore e la sessualità, ossia le dimensioni del vivere umano che toccano più in profondità la nostra essenza. L’“assistenza sessuale” ha motivo di esistere se si postula – come fanno del resto i promotori – che i disabili abbiano diritto ad accedervi in quanto impossibilitati ad avere incontri sessuali con persone che li desiderino: nessuno può desiderare un disabile, ergo possono avere rapporti solo con chi si presta per professione. Al contrario, come spiego nel libro, già senza interventi specifici per agevolare la crescita sentimentale ed erotica delle persone con disabilità, si riscontra un fiorire di relazioni intime anche in chi ha un handicap estremamente grave. Con interventi rivolti ad incrementare l’inclusione sociale e a migliorare il modo di relazionarsi con se stessi e con gli altri e vivere il proprio corpo, ritengo che si possano sviluppare le potenzialità di cui ogni persona con disabilità dispone, facendo sì che tanti altri possano realizzare i loro desideri di condividere sentimenti d’amore e scambi sessuali.L’“assistenza sessuale” è un’illusione, fa credere alle persone di poter vivere l’erotismo e la sessualità, ma non è così in quanto fare sesso con una persona che non ci desidera, ma lo fa per lavoro e avere un incontro sentimental/sessuale con chi ci desidera, sono due esperienze radicalmente differenti. I sostenitori dell’“assistenza sessuale” sostengono che chiunque dovrebbe avere la possibilità di fare sesso una volta nella vita, io ritengo che chiunque dovrebbe fare l’esperienza di sentirsi amato e desiderato almeno una volta nella vita…».
Molto interessante e illuminante è il secondo capitolo del libro (Fattori patogenetici e piani di intervento). Sappiamo tutti che la formazione è fondamentale in qualunque tipo di lavoro, ma quanto lo è in questo specifico settore e perché? Quali sono i rischi di una scarsa conoscenza?
«Per una persona con disabilità intraprendere un percorso di crescita personale non è facile. Il rischio principale è quello di non riuscire ad andare oltre i limiti e vedere le risorse di chi si ha di fronte. La formazione in questo caso è fondamentale, perché non c’è terapia che possa essere svolta, se non si ha consapevolezza delle potenzialità del paziente e non la si riesce a trasmettere.
Altre volte esiste il pregiudizio che la disabilità sia un’esperienza tanto lontana da rendere impossibile l’instaurarsi di una comprensione empatica: non è così, però, la disabilità, infatti, non è altro che la rappresentazione della fragilità di ognuno di noi. L’esperienza del superamento delle difficoltà di ognuno diventa il ponte empatico fra terapeuta e paziente e la possibilità di offrire uno sguardo positivo per andare oltre».
L’argomento del “Dopo di Noi” è ormai di dominio pubblico, un tema tanto doloroso quanto ineluttabile. Ritieni che accompagnare le famiglie in questo percorso possa fornire qualche strumento in più per affrontare la separazione?
«Nel libro c’è un paragrafo che si intitola La vita continua… anche dopo di noi. Per me è questo l’obiettivo che dev’essere perseguito: fare accettare la prospettiva della morte con serenità e fare assimilare il diritto del/la figlio/a al proseguimento della propria vita. Fornire strumenti mentre i genitori sono ancora in vita e in buona salute, per preparare i figli a vivere senza il loro supporto. Costruire indipendenza durante la vita. Queste in sintesi le tesi del libro a riguardo».
Quali sono a tuo avviso le motivazioni che muovono i familiari ad intraprendere la scelta del caregiver familiare? Quali secondo te i pro e i contro?
«La motivazione principale è il constatare l’insufficienza quantitativa e la scarsa qualità dei servizi di cura dei loro familiari con disabilità. Il costo, purtroppo, soprattutto nei casi più gravi, è descritto ampiamente nel libro. È un grande stress psicofisico e il dover rinunciare ad opportunità lavorative e di socializzazione, fino a trascurare la propria salute. Nel testo è presente un questionario che aiuta ad inquadrare il carico di lavoro e di stress associato alla cura di un familiare con disabilità, ma anche ad inquadrare quali leve possono essere mosse per diminuire il burden [“peso”, N.d.R.] e migliorare la qualità della vita».
Ritieni ci sia differenza tra “essere disabili” e “avere una disabilità”? E se sì quale?
«Il libro si ispira al modello biopsicosociale che afferma che il livello di disabilità di una persona è determinato dall’incontro dei suoi limiti fisici con le caratteristiche del contesto sociale. Affermare di “essere disabili” mi rimanda un vissuto di impotenza e di immobilità, nonché mi fa immaginare che la disabilità sia una caratteristica connaturata alla persona. Nel libro, invece, si sostiene l’idea che si possa fare i conti con i propri limiti fisici e ridurli, se non si può neutralizzarli completamente, attraverso l’empowerment».
Ritengo che leggere il tuo libro possa fare molto bene sia a tutti coloro che hanno una disabilità, sia agli operatori, perché è scritto in chiave positiva, fornendo anche spunti e testimonianze che la disabilità non è un deterrente a vivere bene. C’era anche questo tra i tuoi propositi?
«Direi di sì, sono contento che tu abbia colto questo messaggio e spero che lo facciano anche altri e diventi uno stimolo per migliorare la propria vita. Grazie!».