Come rispondere ai bisogni educativi di tutti gli alunni

di Giovanni Maffullo*
«Fino a quando non verranno ben delineati una nuova normativa sul Piano Educativo Individualizzato Differenziato e la figura del referente per l’inclusione, la comunità educante - scrive l’insegnante specializzato Giovanni Maffullo, prendendo in esame alcuni elementi di criticità che affliggono in particolare la scuola secondaria di secondo grado - non sentirà la responsabilità di rispondere alle effettive esigenze che emergeranno dall’area dei Bisogni Educativi Speciali, alunni con disabilità in primis»

Studenti in classe, fotografati di spallePremesso che la presenza degli alunni con BES (Bisogni Educativi Speciale) nelle nostre scuole è strutturale e tenendo conto che abbiamo una legislazione vigente all’avanguardia a livello europeo e mondiale, vorrei in questa sede fare emergere taluni elementi di criticità organizzativo-gestionale e normativi che affliggono la scuola e in modo particolare la scuola secondaria di secondo grado.
Il primo gap che emerge in termini organizzativi, ovvero in termini  di “gestione” dei percorsi formativi degli studenti con disabilità, è connesso con il fatto che esiste una frattura netta fra primo e secondo ciclo, tra medie e superiori, sia a livello di continuità didattico-educativa, sia a livello giuridico-normativo. Sappiamo però che ciò mette in difficoltà le scuole superiori, in quanto l’obbligo scolastico termina proprio nella scuola secondaria di secondo grado, cioè al secondo anno delle superiori, con una certificazione di competenze for all. Ma procediamo con ordine.

Esiste una normativa – anche grazie ai recenti Decreti Legislativi 62/17 e 66/17, applicativi della Legge 107/15 (cosiddetta La Buona Scuola) -, in forza della quale gli studenti con disabilità, pur seguendo un percorso didattico-disciplinare differenziato, frutto di una proposta formativa individualizzata e personalizzata, di fatto possono conseguire la cosiddetta licenza di terza media, ovvero essere promossi con una certificazione di competenze e un titolo di studio identico a quello dei loro compagni, a prescindere dal percorso didattico seguito: semplificato per obiettivi minimi o differenziato. Non appena giungono alle scuole superiori, però, la normativa cambia: se seguono un percorso differenziato, ai sensi dell’Ordinanza Ministeriale 90/01, non possono conseguire il corrispondente titolo di studio (il percorso differenziato può essere seguito sin dal primo anno delle superiori). In altri termini, il superamento dell’Esame di Stato in classe quinta (alias “Esame di Maturità”) porta all’elaborazione di una mera certificazione di competenze per quegli studenti che non raggiungono gli obiettivi minimi previsti nelle varie materie disciplinari.
Orbene mi chiedo come è possibile pretendere che uno studente con disabilità e una famiglia accettino la prevista “valutazione differenziata” durante il primo anno di frequenza delle superiori, se sino al precedente anno scolastico si erano conseguiti voti equipollenti a quelli dei loro compagni! Come possono le persone rielaborare mentalmente il fatto che ora “la musica è cambiata”? In altre parole, come possono essere accompagnati i genitori nel lento, ma inesorabile processo di accettazione che il loro figliolo con disabilità non ha un funzionamento cognitivo-apprendimentale comparabile con quello del gruppo dei pari? Come la loro sofferenza può essere accompagnata nel tollerare una situazione di diversità dei percorsi didattici, per poi accettare la valutazione differenziata?
Personalmente credo sia necessario dare tempo e  se possibile riformulare la normativa connessa con il biennio delle superiori.

A normativa vigente, in seno all’Istituto Superiore di cui faccio parte, ho sollecitato – e ciò è stato tollerato/accettato dai docenti curricolari – che nel corso del biennio – trattandosi di obbligo scolastico – si estenda idealmente e pragmaticamente la normativa che viene applicata nelle scuole medie: si differenziano i contenuti, pur mantenendoli agganciati alle varie discipline, considerandoli afferenti ai cosiddetti obiettivi minimi; indi si procede alla realizzazione di verifiche e valutazione in base al percorso individualizzato e personalizzato ritagliato su misura per lo studente con disabilità. Nel caso, come càpita, in cui la differenziazione sia distante dagli obiettivi minimi, si procede alla valutazione comparata con il resto della classe, ovvero si danno dei debiti formativi a settembre. Dando questi debiti in una o più materie (al primo e/o al secondo anno di frequenza delle superiori), si manda un segnale forte, in primis ai genitori dello studente. Così facendo, infatti, tengo agganciato alla programmazione di classe lo studente con disabilità (che non deve essere gravissimo) e il Consiglio di Classe comunica che l’alunno è in difficoltà per quanto attiene il processo cognitivo-apprendimentale, ovvero che l’IO reale dello studente, di quello studente, fatica a raggiungere quelle performance minime richieste in talune materie.
Nel frattempo si opera a livello interistituzionale: si palesa agli specialisti della Sanità, oltre che ai genitori, che il ragazzo lo si vuole aiutare nel corso del biennio, ma poi, per il percorso didattico-disciplinare, divenendo più complesso e articolato, sarà necessario ricorrere a una valutazione differenziata, ovverosia non rilasciare il titolo di studio – leggasi diploma di scuola superiore – ma solo un attestato di frequenza, con annessa certificazione delle competenze conquistate.
A mio avviso, quindi, al biennio delle superiori occorrerebbe applicare la normativa valida per il primo ciclo e ciò comporterebbe un duplice vantaggio: da un lato i docenti potrebbero conoscere e lavorare in chiave inclusiva con gli studenti con disabilità che sono in maggiore difficoltà, senza dover pensare già di proporre una valutazione differenziata sin dal primo anno delle superiori; dall’altro lato, si permetterebbe ai genitori di rielaborare al meglio la situazione riguardante il reale funzionamento cognitivo-apprendimentale del figlio, senza dover negare l’evidenza (si procrastinerebbe al termine dell’obbligo scolastico il dover ricorrere alla valutazione differenziata, evitando di creare tensioni relazionali fra le due agenzie educative, la scuola e la famiglia).

È proprio questo il dilemma che si consuma alle superiori: molti docenti curricolari spingono affinché sin dal primo anno – stante la normativa afferente alla citata Ordinanza Ministeriale 90/01 – il PEI (Piano Educativo Individualizzato) sia differenziato da subito, in modo tale da “scaricare” sul docente di sostegno la responsabilità di pensare e realizzare un percorso didattico differenziato, meglio se realizzato anche  fuori dalla classe (si nega così, di fatto, la possibilità di integrazione con la classe e l’applicazione dell’agognata didattica inclusiva). Al contempo, con questa proposta di immediata differenziazione comunicata ai genitori – che hanno un figlio in palese difficoltà in termini  cognitivo-apprendimentali -, si veicola un messaggio inequivocabile: l’alunno non funziona in ambito didattico-disciplinare e scoppia, talvolta, il finimondo fra scuola e famiglia, che rigetta la proposta del percorso differenziato.
Come si fa infatti a esigere che mentalmente degli adulti accettino, nell’arco di pochi mesi, una valutazione che sino al giugno precedente era stata considerata “equipollente” a quella dei compagni del loro figlio e che ora (indicativamente entro il 30 novembre occorre decidere se seguire un PEI Differenziato o un PEI Equipollente) all’improvviso devono digerire la proposta di un itinerario formativo differenziato?
Il passaggio dal PEI equipollente a un PEI Differenziato vuole un tempo di rielaborazione mentale, occorre cioè dare tempo ai genitori di accettare che l’evidenza, restituita dalla scuola, venga metabolizzata:«Suo figlio, a scuola, nella didattica, non funziona». È un messaggio crudo, realistico, ma duro, a cui ci si deve abituare, con cui occorre necessariamente fare i conti. Come si fa a pretendere un neo allineamento mentale all’evidenza sic et simpliciter?
A me ricorda un po’ quello che succede nel passaggio dalla scuola dell’infanzia a quella primaria; da un setting ludico ricreativo presente nell’infanzia sino al mese di giugno, si esige che a settembre il bimbo si adatti immediatamente a un neo setting: seduto e allineato, ciascuno nel proprio posto al banco. Così come il bimbo ha bisogno di tempo per adattarsi, allo stesso modo le famiglie, ma pure i docenti, hanno bisogno di tempo per osservare, proporre, sperimentare, capire come fare e… accettare la situazione.

Ecco dunque ciò che propongo.
La normativa del biennio delle superiori va allineata a quella vigente nel primo ciclo e ciò per i seguenti semplici motivi:
1) Innanzitutto siamo nel periodo dell’obbligo scolastico, che rappresenta, per forza di cose, un continuum in ambito didattico-educativo. Quindi: perché non differire la proposta di un eventuale percorso differenziato al termine del secondo anno della scuola superiore?
2) In questo primo biennio, permettiamo alle persone-docenti di adeguare la loro azione didattico-educativa in relazione alle effettive esigenze dell’alunno che hanno di fronte, sia in termini di  progetto di vita, sia in termini didattico-disciplinari.
3) “Concediamo” alle famiglie di rendersi maggiormente conto della reale situazione e quindi diamo loro tempo per accettare, in una situazione di ulteriore sofferenza, il fatto che il PEI Differenziato, in un’ottica di PdV (Percorso di Vita) sia la proposta più funzionale.

Occorre dare tempo, “il tempo è galantuomo”, come si diceva in passato. Il biennio delle superiori si identificherebbe con quel necessario tempo di latenza, affinché l’ambiente e gli adulti intorno alla persona con disabilità (genitori e docenti) potessero adattarsi alle neo istanze esistenziali (porre le basi per un percorso individuale da iniziare a scuola e proseguire sul territorio dopo la maturità).

Vengo ora all’altra esigenza organizzativo gestionale dell’inclusione presso la singola scuola, che identifico con la necessità che il referente per l’inclusione interpreti il proprio ruolo in modo funzionale, sempre in un’ottica di servizio istituzionale volto all’implementazione della qualità dell’inclusione.
Prima di addentrarmi nello specifico, desidero fare un  breve preambolo connesso con il neo paradigma dell’inclusione: pensare e agire in chiave ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.]. Contrariamente infatti al modello biomedico, il modello socio-antropologico dell’ICF vede la disabilità e/o il disturbo come frutto dell’interazione fra individuo e ambiente di appartenenza (il contesto in cui ciascuno vive può fungere da barriera o da facilitatore). Ne consegue che a scuola l’ambiente può promuovere condizioni di salute psicofisica, a patto che venga ad affermarsi la cosiddetta flessibilità organizzativo-didattica che fonda la sua azione non solo sull’utilizzo di nuovi ausili tecnologici, ma soprattutto sull’integrazione di servizi alla persona – ivi inclusa l’individualizzazione e la personalizzazione del percorso formativo – senza i quali la difficoltà soggettiva e individuale può tramutarsi in vero e proprio handicap. Ovvio è che questo nuovo paradigma – teso a considerare la persona nella sua globalità e a pensarla come soggetto che interagisce in un ben preciso e circostanziato contesto – si identifica con una vera e propria rivoluzione culturale da sostenere con adeguate risorse aggiuntive affinché anche il mondo circostante faccia lo sforzo di adattarsi alla persona, rispondendo a precipue istanze soggettive inderogabili (diritto al “ben-essere” in primis).
In tale neo prospettiva di ben-essere, l’organizzazione scuola deve garantire l’istituzione del referente per l’inclusione ovvero un docente che, in veste di referente, «collabora con il dirigente scolastico, assicura un efficace coordinamento di tutte le attività progettuali di istituto, finalizzate a promuovere la piena integrazione di ogni alunno nel contesto della classe e della scuola» (Legge 107/15, articolo 1, comma 83).
Il referente ha compiti che hanno sia una valenza connessa con la promozione di una cultura inclusiva, sia una valenza tecnico-organizzativa. Nell’area della cultura inclusiva, si possono annoverare, tra le sue funzioni, le seguenti iniziative: sensibilizzazione e formazione connessa alla diversità e alla didattica inclusiva; diffusione della cultura promossa dal modello sociale ICF; mediazione tra colleghi, famiglie, studenti e operatori socio-sanitari; sostegno ai rapporti interistituzionali, nella prospettiva della promozione di una rete con il territorio (segmento che interessa anche l’aspetto organizzativo). Nell’àmbito invece del supporto tecnico-organizzativo, il referente per l’inclusione dovrebbe: fornire informazioni connesse con le disposizioni normative; dare indicazioni su strumenti anche compensativi, atti a facilitare il realizzarsi di percorsi didattici personalizzati; coordinare azioni volte a sostenere la realizzazione di buone prassi; promuovere la cultura del cambiamento in termini strategico-metodologici.
In realtà va sottolineato che la figura del referente per l’inclusione non è a tutt’oggi ben delineata in termini giuridici e quindi esiste un palese gap fra il dichiarato nelle norme (Legge 107/15 in primis) e quanto pragmaticamente si può fare nel quotidiano di ogni scuola secondaria di secondo grado.

Ebbene, a mio modesto parere, sintantoché i due punti suindicati non verranno ad essere ben delineati – normativa sul PEI Differenziato da estendere al biennio e figura del referente per l’inclusione -, la comunità educante non sentirà la responsabilità di rispondere alle effettive esigenze che emergeranno dall’area dei Bisogni Educativi Speciali, alunni con disabilità in primis. Si farà cioè fatica a rimuovere tutti quegli ostacoli-barriere che si frappongo fra l’attività didattica e il successo formativo. L’intera comunità educante deve invece interrogarsi e valorizzare la centralità e la trasversalità del processo inclusivo, al fine di poter fornire quell’adeguata risposta personalizzata utile ad ogni studente e a maggior ragione se con BES.
Fermo restando che i singoli docenti curricolari restano i detentori delle conoscenze specifiche tipiche delle varie discipline, è necessario affrontare in termini tecnico-organizzativi, a livello di ogni istituzione scolastica, ciò che costituisce barriera al successo scolastico. Dall’osservazione quotidiana effettuata sul campo, devono emergere quegli elementi di facilitazione che possono sostenere il processo di insegnamento-apprendimento, permettendo di superare quegli elementi di criticità che si palesano nell’incedere della prassi didattica, in modo eclatante nelle scuole secondarie di secondo grado.

Oggi le criticità – che emergono talvolta anche negli altri ordini di scuola – sono sostanzialmente: marginalità dell’insegnante specializzato a cui viene delegata la didattica speciale e inclusiva; rigidità dei percorsi formativi pesantemente orientati al didattico e spesso sganciati dalla dimensione sociale dell’esistere che, immancabilmente rimanda a un’idea di integrazione scolastica, negando, nei fatti, l’inclusione sociale che si deve muovere lungo la prospettiva del progetto di vita.
Ne segue che tali suindicate criticità organizzative determinano l’insorgere di una palese difficoltà connessa  con il vivere sociale, negando sia la corresponsabilità sia la continuità esistenziale. Penso pertanto che nel futuro delle nostre Istituzioni  Scolastiche debba essere fatto spazio non solo a una filosofia dell’accettazione, ma anche a una flessibilità didattica che sposti l’interesse dal sistema verso il singolo soggetto, presidiando con coerenza il progetto dichiarato e l’esito delle azioni estrinsecate sul campo.

Insegnante specializzato e consigliere di orientamento.

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