Quanti degli attuali leader del movimento italiano della disabilità conoscono la vita e il pensiero di Rosanna Benzi? La domanda sorge legittima, visto il trend di cancellazione della memoria che sembra essere il modo di vita “moderno”, dove le informazioni sono disponibili in una sequenza infinita, ma non rappresentano spesso un’acquisizione di strumenti critici che hanno nell’evoluzione storica il filo rosso che li collega.
Rosanna è stata una pietra miliare della coscienza culturale del movimento di emancipazione delle persone con disabilità in Italia. Ce lo ricorda ora anche un bel libro di Lavinia D’Errico (La femme-machine. Vita di Rosanna Benzi nel polmone d’acciaio, Milano, Meltemi, 2018), ricercatrice presso il CeRC (Centre for Governmentality and Disability Studies “Robert Castel”) dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
Nata a Morbello (Alessandria) nel 1948, a 14 anni Rosanna va a trovare un’amica allettata a causa della poliomielite, viene contagiata e nel giro di pochi giorni si ritrova a vivere per tutta la vita in un polmone d’acciaio all’Ospedale San Martino di Genova.
Invece di entrare in un cupo mondo di rimpianti, sceglie una vita di accettazione della propria condizione, si adatta ai nuovi limiti che il corpo le dà e costruisce un percorso di vita basato su una resilienza centrata sulla voglia di partecipare, di essere parte attiva del mondo in cui vive.
«Non sono una masochista o una pazza – diceva – sono convinta di avere vissuto vent’anni che valeva la pena di vivere e che probabilmente non sostituirei con altri… Certo, se domani potessi uscire di qua e andarmene per strada sarei felice, ma sai quanta gente di quella che va per strada vive meno di me la propria vita? Quanta gente la spreca, o la lascia passare distrattamente? Io ho imparato a non buttare via niente».
Un esempio, il suo, di vita vissuta pienamente con “lucidità e ironia” e una fortissima consapevolezza di dare voce al mondo degli esclusi.
Dal suo polmone d’acciaio scrive al Sindaco di Genova, a Papa Giovanni XXIII, iniziando ad avere una notorietà oltre la città in cui vive. La sua stanza diventa un sorta di cenacolo, dove si intrecciano visite di tanti, famosi e non, attirati dalla sua vivacità e voglia di vivere, discutendo di tanti problemi sociali nell’agenda politica e culturale italiana.
Da qui nasce la rivista «Gli Altri» (1976-2001), che ospita articoli su tutto il mondo variegato degli esclusi e degli emarginati (rom, carcerati, migranti ecc.), una testata straordinariamente innovativa, la prima in Italia capace di intrecciare discorsi legati alla condizione di disabilità, con il tema della guerra, della cooperazione internazionale, delle politiche sociali, dell’emarginazione di altri gruppi sociali. Una rivista nata dagli esclusi, che parla di esclusione e marginalizzazione a trecentosessanta gradi.
Rosanna ha una chiara e moderna visione dei meccanismi escludenti della società. Ad esempio ha una limpida percezione dello stigma che colpisce le persone con disabilità, cogliendo acutamente l’influenza negativa degli adulti sui bambini, soprattutto nelle scuole (erano i primi anni dell’inclusione scolastica, attivata dalla Legge 517/77), ove sui bambini stessi viene trasferita una diffidenza, e a volte un senso di distacco, verso i compagni con disabilità. Oppure quando coglie già all’inizio degli Anni Novanta la doppia discriminazione che colpisce le donne con disabilità. O ancora, quando affronta il tema della sessualità, sottolineandone l’omissione e la negazione per le persone con disabilità.
Anche nelle battaglie di emancipazione ha avuto un ruolo importante: il suo gruppo aderiva alla Lega Nazionale per il Diritto al Lavoro degli Handicappati, organizzazione che raccolse nel 1980 ben 100.000 firme su una legge di iniziativa popolare sul diritto al lavoro, da cui poi è nata – vent’anni dopo – la Legge 68/99. Quella Lega rappresentò una “rottura” tra le Associazioni che si occupavano di disabilità, costruendo un modello di rivendicazione dei diritti che ha fatto scuola. Non è stato un caso se la rivista di Rosanna ne divenne la portavoce.
Per chi, come me, ha conosciuto Rosanna, andando a trovarla nella sua stanza e scrivendo sulla sua rivista, il ricordo di quella donna nel polmone d’acciaio è fatto di allegria, di riflessioni importanti, di un’ironia leggera e pungente. I due libri che ha scritto, Il vizio di vivere (1984) e Girotondo in una stanza (1987), ne descrivono pienamente il carattere indomito, la voglia di vivere e la sottile capacità di leggere il mondo e i comportamenti umani, il desiderio di emancipazione da tutte le forme di emarginazione ed esclusione.
Il suo mondo è di una modernità straordinaria: affronta con uno sguardo quasi preveggente i temi dell’inclusione scolastica, delle barriere architettoniche, dell’assistenza domiciliare, dell’autonomia, della valorizzazione delle diversità. La sua comprensione della disabilità (all’epoca si diceva dell’handicap) «come problema sociale non individualistico, da affrontare andando oltre i confini della famiglia», parla al presenta a chi ancora accomuna il tema della disabilità a quello della famiglia.
Un’ultima notazione va al primo capitolo del libro di D’Errico, in cui si ricostruiscono le vicende che hanno portato in Italia all’avvento dei vaccini contro la poliomielite. L’indagine accurata, che spiega anche il perché Rosanna contrasse questa malattia, si intreccia con alcune citazioni letterarie: per i cosiddetti “no-vax” risulterebbe istruttivo, ad esempio, leggere il romanzo Nemesi di Philip Roth, che racconta di un’epidemia vissuta negli Stati Uniti prima dei vaccini di Albert Sabin e Jonas Salk, ciò che, in assenza di qualsiasi informazione sulle cause della malattia, generava una vera e propria “caccia alle streghe”, una paranoia sociale per trovare il capro espiatorio colpevole del contagio.
Non siamo tanto lontani dalle paranoie contro i migranti, che osserviamo sgomenti sulle pagine dei giornali e sui notiziari radiotelevisivi.