Tutto cominciò sulla terrazza del ristorante di un hotel. Il giovanissimo cameriere, insieme a un ospite che ben oltre l’orario di chiusura si attardava a fotografare il panorama, attendeva. E fu quasi una magia quando l’ospite, annientando ogni distanza, gli accordò il permesso di guardare la sua Tropea attraverso il mirino di una macchina fotografica professionale.
Ci volle un attimo perché Saverio, appena sedicenne, si innamorasse di quello strumento così affascinante: la sua forma, il suo funzionamento, il valore aggiunto che ogni immagine recuperava dallo sguardo del fotografo. Per uno scatto significativo, insieme al soggetto bisogna mettere a fuoco cervello e cuore, intenzione e sentimenti. Quel panorama, visto attraverso il mirino della macchina fotografica, aveva appena rivelato a Saverio una parte di se stesso.
Dall’Istituto d’Arte di Vibo Valentia allo IED di Roma (Istituto Europeo di Design), con l’umiltà e la curiosità che gli erano proprie e la tenacia e lo spirito di sacrificio dei calabresi migliori, Saverio Caracciolo iniziò la propria carriera, giungendo a inaugurare uno studio fotografico tutto suo, a Tropea.
Ma fu la televisione a rivelargli altre possibilità di espressione, prima come fotografo in studio, poi attraverso la macchina da presa. Oggi, a 45 anni, è videoreporter di un importante network calabrese in cui, fra l’altro, cura la rubrica Storie, costituita da documentari pregevoli che narrano il territorio. Un lavoro attraverso il quale ha potuto affinare le armi sensibili e scovare tra le pieghe della cronaca più dura, della realtà più emarginata sprazzi di inusitata bellezza, scorci inaspettati di umanità, di calore, di consolazione.
Incontrò la disabilità sul set di una trasmissione, mentre era fotografo di scena. Commise l’errore di rivolgersi all’assistente dell’ospite cieco piuttosto che a lui direttamente. L’ospite glielo fece notare e Saverio se ne dispiacque oltremodo, rendendosi conto di avere commesso una gaffe (molto comune, in verità). Capì che doveva colmare la propria ignoranza rispetto alla disabilità e volle conoscere più da vicino le persone cieche e ipovedenti, il loro modo di approcciare la realtà, le loro risorse piuttosto che i loro limiti.
Ne nacque un rapporto importante e l’intenzione di offrire qualcosa di sé a quei nuovi amici. «Per donare me stesso – racconta – ho dato loro la fotografia!». Una follia, una sfrontatezza al limite della presa in giro? Nient’affatto. Saverio aveva ben chiaro come doveva fare, dimostrando che la fotografia è soprattutto un prodotto interiore. E che un fotografo è in condizione di esprimere se stesso anche da cieco. Basta una buona preparazione e un po’ di assistenza.
E così elaborò un corso di fotografia per allievi ciechi che probabilmente verrà replicato all’Università di Cosenza. Con una parte teorica, con storia della fotografia e tecnica fotografica per la quale si inventò un sistema tattile, e una parte pratica, attraverso l’uso di macchine professionali, non di giocattoli.
I corsisti scelsero un tema che, tutti d’accordo, fu Le barriere architettoniche. «Quante scale, gradini, buche abbiamo fotografato – spiega Saverio -. Non immaginavo il loro disagio. Mi hanno portato anche al cimitero». «Nelle lezioni in esterna – continua -, mi sono limitato a spiegare il contesto e a descrivere l’ambiente circostante. Fuoco ed esposizione in automatico, hanno calcolato da soli le angolazioni e scattato portando il mirino all’occhio. No, non è strano. Hanno fatto come tutti, calcolando le distanze a partire dalla posizione della macchina vicino all’occhio».
Il resto è stato un gioco di sensazioni personali, anche corporee: il calore per la posizione del sole, la direzione del vento. E il tatto: hanno toccato per sapere com’era fatto e che dimensioni aveva l’oggetto dei loro scatti.
È stata realmente una grande esperienza per tutti, anche per gli allievi che hanno costruito un ponte, un legame tra loro e l’ambiente. E superato una barriere interiore dettata, come sempre, dalla non conoscenza.
I risultati, sorprendenti, sono contenuti in un filmato tutto da vedere (e da ascoltare), che mostra alcune fasi di questa esperienza, insieme alle testimonianze dei corsisti durante le sedute all’aperto. E mostra soprattutto le fotografie scattate senza il bene della vista, ma con la libertà di chi ha voglia di esprimersi.
Nessun corso pietisticamente “per ciechi”, solo un adattamento della didattica per permettere espressioni artistiche tutt’altro che rare in chi ha una disabilità sensoriale. Un segno, questo, di quanto possano l’intelligenza, la passione civile, la creatività in una persona fondamentalmente capace di ascolto. Una persona qualunque, capace di creare bellezza.
Il presente testo è già apparso in InVisibili, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Saverio Caracciolo e quei corsisti ciechi dall’«invisibile» talento fotografico”. Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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