Nei giorni scorsi abbiamo appreso con grande piacere di quella classe di un Istituto Tecnico di Faenza (Ravenna), che al fine di comunicare con una compagna non udente e parzialmente non vedente, ha imparato la Lingua dei Segni.
Si è trattato, evidentemente, di un “bel regalo di Natale” che permetterà alla ragazza di poter dialogare e confrontarsi con i compagni in un ambiente finalmente più inclusivo e sereno.
E tuttavia, tale pregevole iniziativa mi induce all’amara considerazione che, non di rado, i compagni degli studenti con disabilità del nostro Paese siano spinti ad apprendere la LIS o il Braille non solo per un encomiabile e lodevole spirito di solidarietà e di integrazione, ma anche e soprattutto in quanto “costretti” a causa della mancanza di conoscenze pedagogiche e didattiche adeguate sulle disabilità sensoriali da parte degli insegnanti di sostegno delle loro classi.
La scarsa formazione specifica dei docenti per il sostegno sul Braille e sulla LIS è innanzitutto imputabile all’attuale esiguo numero degli alunni con disabilità uditiva e visiva (solo il 2,7% e l’1,6% rispetto al totale dei 235.000 studenti italiani con disabilità).
Dai numeri di cui sopra, infatti, possiamo facilmente comprendere perché la preparazione fornita agli aspiranti docenti specializzati dagli Istituti di Psicologia e di Scienze della Formazione delle Università italiane sia oggi sempre più “indifferenziata” e “generalista”, riducendo a sole poche ore o addirittura unità gli insegnamenti della Lingua dei Segni, del Braille, della CAA [Comunicazione Aumentativa e Alternativa, N.d.R.] e della Tifloinformatica.
Inoltre, va considerato il fatto non trascurabile che, oggi, il 40% dei 120.000 docenti per il sostegno sono “in deroga”, con incarichi precari e nemmeno abilitati al sostegno e che, prima di tali incarichi, nella maggioranza dei casi, non hanno mai avuto esperienze didattiche con allievi sordi e ciechi. Ciò significa che quasi la metà dei docenti di sostegno italiani non è “specializzata” ed è priva di una formazione specifica.
La cosa più deludente, purtroppo, è che, a quanto pare, neppure la nascitura riforma dell’inclusione scolastica, preannunciata dal Governo nelle scorse settimane, muterà tale circolo vizioso di insufficienza e inadeguatezza del nostro sistema, perché continuerà ad insistere colpevolmente soltanto sulla “centralità” del docente di sostegno, a trascurare l’atavico problema dei precari storici e della loro carente formazione specifica e da ultimo, ma non certo ultimo, a dimenticarsi ancora una volta dell’assoluta indifferibilità del “sostegno del contesto” (potenziamento dei CTS [Centri Territoriali di Supporto, N.d.R.]; creazione al loro interno di appositi “sportelli” dedicati alle singole disabilità; centri di consulenza pedagogica e didattica; riconoscimento giuridico della figura dell’assistente alla comunicazione).
E tutto questo in barba al principio del “sostegno diffuso”, sancito dalla nostra avanzatissima legislazione scolastica, dal modello bio-psico-sociale dell’ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] e dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che sta alla base dell’autentica cultura dell’inclusione.