Posto che i due termini sussistano comodamente nell’orizzonte di un linguaggio sempre più teso a divenire tecnico/specifico, per cui parleremo di entrambi per dignità didattica e valore storico, la cornice europea riguardo ai concetti di integrazione e a quello maggiormente dominante di inclusione, passando per quelli di istruzione e di formazione, dunque dell’idea politica di scuola che si è andata delineando in questi ultimi anni e che li vede ambedue direttamente al centro della scena, quella del dibattito sui valori dell’insegnamento e della pedagogia, oltreché di quello della formazione, la cornice europea, si diceva, potrebbe probabilmente essere sintetizzata riassumendo pochi dati presi qua e là dal vasto universo delle politiche scolastiche dei singoli Stati; quel che però a mio personale giudizio merita maggiore attenzione è il concetto di equità, non solo sociale, ma didattico-educativa.
L’equità in campo educativo e in quello dell’istruzione la si persegue applicando il concetto di “integrazione”, che significa sviluppare con coscienza e umanità un processo volto all’acquisizione delle conoscenze e alla maturazione delle stesse competenze, sostenendo adeguatamente il discente e rispettandone le attitudini e le aspettative.
Oggi il pensiero dominante volge il proprio sguardo prospettico al concetto, solo in apparenza antagonista, ma che di fatto si completa sostanzialmente con quello di integrazione: quello di “inclusione”. Qual è la ragione che li tiene uniti? La risposta potrebbe essere: entro tale cornice politica l’elemento protagonista, che in fondo lega entrambe i concetti, a giudizio di chi scrive ha la propria radice nella relazione dell’idea utilitaristica di formazione e in quella storico/filosofica di istruzione/educazione, binomio sensibile per l’equilibrio precario di due sistemi di pensiero sostanzialmente contrari, che inevitabilmente si riverbera, ancora oggi, anche sul mosaico europeo, appunto, del binomio istruzione-formazione, alla luce dei concetti di integrazione ed inclusione.
La domanda da porsi a questo punto è la seguente: siamo pronti a formare professionisti in condizioni di disabilità? Ad investire, non tanto risorse economiche, ma prima ancora umane e professionali?
L’esempio negativo ci arriva dall’Italia: le ultime decisioni dell’attuale Esecutivo in materia di economia, che inevitabilmente interessano, guarda caso, il Terzo Settore del nostro Bel Paese, parlano di aumenti dell’IRES [Imposta sul Reddito delle Società, N.d.R.], su cui, è notizia dei giorni scorsi, lo stesso presidente del Consiglio Conte ha detto che si troverà sicuramente un rimedio; per il momento, però, la fascia maggiormente bisognosa – tradotto in linguaggio “politichese”, quella che interessa l’area del Paese meno produttiva, a loro dire ovviamente – si vede decurtati svariate migliaia di milioni d’euro! Il pensiero politico dominante, decide; quello minoritario passivamente accoglie…
In fondo, è la stessa sorte che toccò ai princìpi di governo di un popolo all’indomani dalla Rivoluzione Francese, quando l’Europa mise all’angolo le vecchie monarchie a vantaggio dei princìpi di uguaglianza e libertà, per cui non avrebbe più dominato il criterio dinastico, per il governo di un popolo, ma, da quel momento, quello di uguaglianza, la cui radice nasce dall’humus quale elemento connettivo tra un’idea di uomo e l’esercizio del potere di governo, lo Stato, relazione piuttosto complessa ancora ai nostri giorni, e quella di “bene comune”. Senonché oltre un decennio dopo si parlò di “restaurazione”…
Ma meglio non concedersi distrazioni, torniamo al tema istruzione.
Nell’eterogeneo mosaico europeo dell’integrazione/inclusione, l’Italia è la tessera più difficile perché, partendo da un substrato culturale di impronta idealista, ha preteso di applicare al concetto di istruzione quello di identità del soggetto che, in un contesto di promozione dell’uguaglianza, poco coerente con quello idealista, ha finito col privilegiare quello di uguaglianza, penalizzando l’approccio educativo, nello specifico di tipo didattico, che poggia sul principio d’equità, ovvero il valore della persona intesa come diversità, disattendendo dunque, come ancora oggi spesso accade, il messaggio filosofico di Aristotele, ripreso dal Priore di Barbiana [Don Milani, N.d.R.], secondo cui la giustizia non è dare a tutti in parti uguali, ma ad ognuno secondo le potenzialità e attitudini; ciò perché non vi è peggiore ingiustizia che applicare la teoria dell’uguaglianza tra persone con potenzialità e aspirazioni personali differenti.
Quel significato teoretico, prima che pratico, di uguaglianza, risponde a un’estensione teorica del concetto medesimo di giustizia, secondo cui è giusto “quel che ha” una radice comune tra due o più persone.
La giustizia per noi risponde all’applicazione o meno di un diritto che, nello specifico, è ad esempio quello secondo cui tutti hanno diritto d’essere istruiti, principio di uguaglianza; mentre per ognuno che partecipi del diritto di istruzione ed educazione, va applicato in campo didattico/pedagogico quello di equità, che è sempre un’applicazione del diritto universale allo studio, l’uguaglianza, ma ne rappresenta la specificità.
Ora, mentre il principio d’uguaglianza è facilmente formulato nella storia delle moderne società europee, quello di equità stenta, non tanto nella formulazione, quanto nell’applicabilità in un sistema di uguaglianze. Come vedremo in seguito, l’unico modello che accenna nel concreto all’equità nel campo della didattica, è il modello d’istruzione e formazione anglosassone che, nello specifico per quanto concerne la Scozia, prevede per gli alunni e gli studenti la figura del docente tutore.
Certo, gli Stati europei sono apparentemente impegnati a costruire apparati educativi, ora solo per alcuni, ora per tutti (ma con delle differenze), ora per gli uni e per gli altri, dove quest’ultimi sono gli alunni e gli studenti in condizioni di disabilità. Evidentemente la forza sociale di noi persone in condizioni di disabilità, oggi rispetto a ieri non è di molto aumentata: sono ancora moltissime, infatti, le persone che abbandonano la scuola e che comunque non raggiungono un livello di studio sufficiente a dar loro pari opportunità professionali o comunque d’autonomia.
Forse il pensiero dominante teme il binomio idea/realtà, quando tale relazione interessa la persona in condizione di disabilità. E così, per evitare il prevalere dell’idea sulla realtà a discapito della persona nella sua singolarità, se sino a qualche anno fa ai tavoli politici dove si decideva delle sorti dei processi educativi e dell’istruzione, dove si dibatteva di pedagogia dell’istruzione e dell’educazione, sedevano esperti di didattica, con conoscenze e competenze in materia di apprendimento e autonomia del pensiero, oggi agli stessi tavoli discutono e trovano un accordo sui temi dell’istruzione e dell’educazione – ma anche della formazione – avvocati, economisti finanche alti statisti del pensiero sociologico e democratico; sono esperti sempre di più di diritto, di cui le conoscenze e le competenze pedagogiche certo non sono il primo pensiero, o quasi, ferma restando l’eccezione di taluni professionisti di cui le competenze giuridiche e l’esperienza professionale sono state messe a disposizione del diritto allo studio, avendo essi stessi a cuore l’integrazione e l’inclusione scolastica degli alunni e degli studenti in condizioni di disabilità, per avere essi stessi competenze nel campo della didattica e dell’educazione.
E tuttavia, chiediamoci cosa e chi fa la scuola oggi in questa nostra vecchia Europa le cui due radici storiche che maggiormente l’hanno segnata – il pensiero greco e quello giudaico-cristiano – ancora ai nostri giorni la fanno essere luogo di conflittualità tra loro spesso convergenti.
Scriveva Machiavelli che «il fine giustifica i mezzi», sino a che però il mezzo non diviene il fine; e allora cosa prenderà il posto del mezzo perché vi sia una giustificazione? Lo stesso Marx scriverà oltre trecento anni dopo che «il denaro è il mezzo… ma se lo stesso diventa più importante del fine, esso stesso diverrà fine e non più il mezzo; ma qualora questi divenga fine, allora vi sarà il capovolgimento di quel che prima era “il mezzo”, ed ora è il fine, dunque il bene non più lo strumento».
Lo stesso accade per i due concetti di uguaglianza ed equità, ove il primo è lo strumento, il mezzo politico per consentire ad ognuno di partecipare, di essere al centro della scena, ma al quale poi deve seguire quello di equità e cioè l’esercizio del concetto di giustizia applicato a partire dal soggetto.
E questo potrebbe esser “cosa fa la scuola”. Ma chi la fa? Tutti tranne gli esperti in Scienze Pedagogiche; sempre meno maestri o insegnanti; dirigenti scolastici che, se prima sulla scrivania tenevano bene in vista i manuali di istruzione ed educazione, di didattica e formazione, oggi tengono quelli di diritto accanto al compendio delle leggi e delle sentenze.
L’uguaglianza, anche se talvolta mercanteggiata, viene in qualche modo garantita, ma… l’equità resta nella “cripta” degli esperti.
Tutti, a dire il vero abbiamo sottobraccio la raccolta delle normative vigenti in materia di diritto all’inclusione scolastica, che sempre di meno “oggi” contiene elementi di didattica e di educazione. E così quello che dovrebbe riguardare gli studiosi di istruzione ed educazione è stato consegnato agli antagonisti del pensiero pedagogico, generalmente divergente, per lasciare che ad occuparsene fosse chi del pensiero ne coglie prevalentemente l’azione convergente, distinguendo ciò che appartiene al diritto e dunque all’obbligo da quel che non appartiene al diritto e dunque fuoriesce dall’obbligatorietà; ivi compresa la materia scolastica, con tutte le conseguenze del caso, inclusa quella secondo cui di didattica ed educazione non se ne parli, talvolta, con cognizione.
In quanti si pongono i seguenti quesiti, a partire dagli addetti ai lavori? Cosa vuol dire sviluppare una didattica appropriata o, come piace ai più oggi, inclusiva? Cosa si intende con “didattica integrativa” e con la locuzione “contesto inclusivo”? Cosa significa consentire ad un alunno/studente in condizioni di disabilità di recarsi a scuola ogni giorno?
Vuol dire permettere a quell’alunno/studente di prepararsi in autonomia per recarsi a scuola. Dovrà quindi sapersi gestire autonomamente o anche parzialmente, per quanto riguarda l’igiene personale, la preparazione dello zaino o della cartella scolastica, dovrà saper preparare libri e quaderni utili e/o materiali, ivi compresi i sussidi tecnologici per poter seguire gli insegnamenti. Colui, cioè, che autonomamente o seguendo un preciso percorso, sarà in grado di raggiungere l’edificio scolastico o che si avvalga di un servizio di trasporto che qualcuno avrà provveduto a istituire, per consentirgli il raggiungimento dello stesso. E ancora, che siano predisposte le misure necessarie per far sì che l’edificio sia accessibile, attrezzate le aule, i laboratori, i servizi igienici e le palestre, così come i locali esterni, in modo che l’alunno/studente in condizione di disabilità si muova in autonomia; che venga predisposto un Piano Educativo Individualizzato (PEI), ove si tenga conto del Profilo di Funzionamento (PF) dell’alunno/studente, delle sue capacità residue, come di quelle compromesse; che si preveda personale specializzato per il sostegno didattico e l’affiancamento dell’alunno/studente nel suo percorso educativo, strutture e ausili informatizzati per la sua partecipazione attiva alla didattica, finalizzata agli apprendimenti e non al solo ascolto passivo.
Significa, in sostanza, guidarlo verso ogni “possibile” autonomia, anche di tipo organizzativo, nella disposizione degli strumenti e dei sussidi, che gli consentano la piena gestione del tempo/studio finalizzato a migliorarne l’autostima e a far uso autonomamente delle didattiche.
Gli Stati Europei affrontano il tema dell’istruzione e dell’educazione a partire da un proprio concetto, squisitamente politico, finalizzato alla formazione di futuri cittadini, che più o meno potranno avere un ruolo significativo per il mantenimento dello Stato, inteso come espressione di un ordinamento economico, sociale e politico (evidentemente mi riferisco ad un modello di allievo generalizzato). E gli allievi in condizione di disabilità, che posto hanno in questa variegata composizione del mosaico europeo dell’istruzione e dell’educazione?
Il diritto all’inclusione è tale per essere stato assunto quale norma e principio, a partire dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, definita a New York nel 2006 e ratificata dall’Italia nel 2009 [Legge 18/09, N.d.R.]. Come l’Italia, anche vari altri Stati Europei hanno recepito la Convenzione, ma in relazione all’orientamento che si son dati in materia di obbligo scolastico, l’hanno declinata attraverso l’emanazione di norme in materia di istruzione che hanno determinato percorsi differenti.
L’Italia, ad esempio, ha scritto e legiferato in abbondanza; oggi utilizza con disinvoltura “diseducativa” i due termini per designare altrettanti processi di scolarizzazione, quello di integrazione e di inclusione, non decidendo se gli allievi in condizione di disabilità siano da integrare o da includere.
Prima di guardare dunque ai sistemi di scolarizzazione europei, gettiamo lo sguardo sui significati di quei due termini.
Il primo – integrazione – si riferisce alla persona e alla sua soggettività, per cui dal punto di vista didattico e sociale, necessita di essere guidato, sostenuto nei due processi, quello relativo agli apprendimenti, attraverso una didattica dedicata, e quello di socializzazione, riguardante i processi di educazione che dal singolo si estendono al gruppo: integrazione della persona in un contesto inclusivo. L’alunno si è pienamente integrato nel gruppo classe e nella scuola.
Il termine inclusione, invece, afferisce all’intero contesto scolastico, per cui il processo coinvolge tutti; si dice infatti che l’inclusione appartenga al contesto, e che la stessa continuità didattica ne sia di fatto uno degli elementi costitutivi.
Se il primo è espressione di equità didattica, il secondo manifesta chiaramente quello di eguaglianza, ove il concetto stesso di inclusione trova la massima espressione.
L’istruzione, cosi come l’educazione – e potremmo tranquillamente evidenziare come sia stata l’educazione a dominare – hanno riguardato tutte le organizzazioni politiche e sociali: la scuola non appartiene ad alcun orientamento, per natura; piuttosto può esserne la manifestazione al servizio dell’ordinamento politico. E infatti il sistema di valutazione degli apprendimenti, la certificazione delle conoscenze e competenze da un grado a quello successivo e la conseguente valutazione, hanno costituito da sempre il criterio di selezione con acquisizione di merito o bocciatura; questo almeno per ciò che riguarda il nostro Paese, e in generale gli Stati dell’Area Mediterranea.
Personalmente, considerata l’analisi piuttosto complessa sulle politiche adottate dall’Europa in materia di pari opportunità per gli allievi in condizioni di disabilità, penso si possa dire che esse abbiano trovato in quest’ultimo trentennio non facili applicazioni per le ragioni di cui sopra e di cui gli stessi Stati sono ancora oggi detentori, ovviamente in una logica di “sovranità” e meno di cooperazione.
E così la politica dell’Europa in materia di istruzione e formazione in questi ultimi anni ha avviato un importante cammino di comprensione delle problematiche correlate alla disabilità, impegnandosi in uno sforzo non sempre comune e piuttosto eterogeneo, che si è tuttavia determinato nella formulazione del principio di mainstreaming, ossia diretto all’integrazione delle politiche sull’handicap trasversalmente a tutti gli àmbiti in cui esse vanno ad innestarsi. Fermo restando il permanere di un linguaggio ancora discriminante quale è quello inadeguato, oggi assolutamente “escludente” e denigratorio, di “handicap”, l’intenzione politica del principio ha consentito di dare visibilità ad un’ampia fascia della popolazione europea, a lungo marginalizzata ed esclusa.
La Raccomandazione adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 9 aprile 1992, recita: «Ciascun essere umano è unico e presenta una gamma differenziata di qualità ed aspirazioni. L’esistenza e la comparsa di un handicap sconvolge la vita della persona e di chi gli è accanto. Tuttavia, l’handicap non tocca le caratteristiche e le aspirazioni della persona, ma compromette la possibilità di realizzarle pienamente. Nessuno è al riparo di un handicap che può manifestarsi in qualsiasi momento dell’esistenza. Come l’handicap non è sempre uguale, i bisogni tanto della persona colpita che di quelle vicine possono essere molto diversi, così la capacità della collettività a rispondervi. Di conseguenza la società deve riconoscere a ciascun cittadino la possibilità di scegliere la propria forma di partecipazione alla vita collettiva».
Sarà poi la Convenzione ONU del 2006 a ribadire, per ciò che concerne il diritto allo studio delle persone in condizioni di disabilità, non uno ma diversi princìpi, in particolare agli articoli 2 (Definizioni) e 24 (Educazione). Prima, però, propongo la lettura del frammento che segue, sempre riguardo alla compagine delle Nazioni Unite: «Occorre anche ricordare che, con specifico riferimento all’integrazione scolastica, le Norme Standard delle Nazioni Unite sulle Pari Opportunità per le persone disabili, alla norma 6 punto 1 affermano che “Gli Stati devono riconoscere il principio di pari opportunità nei cicli di studio primario, secondario e superiore per i giovani ed adulti disabili, in un contesto integrato. Gli Stati devono far sì che l’istruzione delle persone disabili sia parte integrante del sistema scolastico».
Come ciò sia stato recepito, credo dipenda da quel che di ciò sia stato compreso: pari opportunità d’accesso agli studi, ovvero ai gradi scolastici o al tipo di approccio didattico, che consentirebbe anche il pieno godimento dei contenuti disciplinari proposti dai diversi gradi di scuola?
Il concetto di integrazione non lo si realizza, ad esempio, mediante l’istituzione di un sistema che definiamo “integrato”. Premesso il contesto integrato, oggi allo stesso si chiede di essere anche inclusivo; ma se ciò ha valore dal punto di vista del registro socio-pedagogico, per la finalità dell’argomento nulla osta alla comprensione dello stesso, tenuto conto del contesto storico da cui ha ereditato il concetto stesso di “integrato”.
Tra l’altro, oggi, almeno per ciò che concerne il nostro Paese, questo è possibile con l’emanazione del Decreto Legislativo 66/17, che pone al centro dei processi di istruzione ed educazione gli alunni e gli studenti in condizione di disabilità, dove il contesto opera in regime di interazione tra sistemi educativi e sociali alla luce del principio trasversale di “inclusività”. Ma per quanto possa apparire evolutivo, rispetto a quello maggiormente soggettivo, il concetto di inclusione non potrebbe operarsi se prima non vi fosse quello di integrazione della persona. Aggiungo poi che nelle scorse settimane abbiamo lavorato al tavolo dell’Osservatorio per l’Inclusione Scolastica del Ministero su alcuni articoli del medesimo Decreto Legislativo 66/17, modifiche che entreranno in vigore dal 1° settembre di quest’anno.
Ma vediamo assieme la cartina “geo-scolastica” dell’istruzione del nostro Continente.
Ben lontani dal sostenere che esista una ed un’unica soluzione, migliore delle altre sempre in tutto e per tutto, l’Europa oggi propone almeno quattro sistemi di istruzione, cui gli Stati hanno cercato di dare una risposta non sempre in linea con l’orientamento comunitario della stessa Unione Europea consegnatoci dalla ricerca di una nota studiosa in Sociologia Francine Vaniscotte. Il modello scandinavo, ad esempio, appare sotto molteplici punti di vista come quello che andrebbe preso come termine di riferimento. Tale affermazione è supportata anche dai risultati ottenuti attraverso le ricerche centrate sulla valutazione internazionale delle competenze acquisite dagli studenti.
Va però evidenziato che, limitatamente al primo ciclo scolastico (scuola primaria o ex elementare), nelle ultime sei valutazioni internazionali i migliori risultati sono stati ottenuti dalla scuola italiana pre-riforma! Certo, i dubbi sono legittimi, ma sarà il paradigma utilizzato l’unico responsabile?
Ecco di seguito una sintetica fotografia di alcuni dei modelli di istruzione, che emerge da uno studio piuttosto analitico del sistema Europa afferente il ruolo sociale della scuola.
La scuola unica proposta dal modello scandinavo
L’impostazione di questo sistema – presente in Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia – si pone come obiettivo prioritario la maggiore eguaglianza di opportunità, fornendo a tutti i bambini la stessa preparazione fino ai 16 anni di età, cioè per tutto l’obbligo scolastico.
Si tratta di una scuola unica, nel senso che tutti gli studenti, nella stessa scuola, ricevono il medesimo insegnamento, da un gruppo di docenti che, per quanto possibile, rimane lo stesso per tutto il periodo. In questo modo si cerca di assicurare la massima continuità pedagogica: solo alla fine del percorso è possibile scegliere qualche disciplina diversa e vengono date delle valutazioni (da 1 a 5). Inoltre si vuole ottenere che tutti i ragazzi, al termine, raggiungano le stesse conoscenze di base che sono connesse, appunto, al significato dell’obbligo scolastico, vale a dire i saperi necessari ad una cittadinanza piena, per potersi inserire in modo idoneo in una società democratica.
In quest’ottica le votazioni (e le conseguenti bocciature) non hanno significato: non vi è insuccesso scolastico e i risultati vanno nel senso di una buona uguaglianza di acquisizioni scolastiche generalizzate, con livelli qualitativi elevati; sembra, perciò, il modello più idoneo a realizzare una scuola «giusta ed efficace», come del resto confermano le comparazioni internazionali.
Si dice una scuola “giusta”, aggettivo piuttosto poco didattico e però democratico; sul termine “efficace”, invece, sospendo il giudizio…
La scuola polivalente del modello anglosassone
È questo il modello dell’Inghilterra, del Galles, dell’Irlanda del Nord, della Scozia e, con qualche differenza, della Repubblica d’Irlanda. La Comprehensive School (scuola polivalente) invece di unificare primario e secondario inferiore, ricerca una continuità tra quest’ultimo e il secondario superiore, con programmi che si possono scegliere da parte di allievi e famiglie, ora però più limitatamente, poiché nel 1988 è stato definito un National Curriculum.
In Inghilterra permane un piccolo numero di scuole tradizionali, che mantengono la vecchia distinzione fra Grammar Schools, Modern Schools e Techical Schools, alle quali accedono i bambini delle “famiglie bene”. Il sistema del tutorato costituisce il principale supporto al miglior funzionamento, in termini di eguaglianza e qualità del sistema. Il docente tutore guida l’allievo nel suo percorso scolastico, si preoccupa che l’insegnamento sia differenziato e perfino individualizzato e aiuta i bambini in difficoltà (in Scozia vi è la figura del “docente itinerante”, che assicura sostegno aiutando colleghi e allievi che ne hanno bisogno).
Anche in questo caso, pur procedendo a valutazioni degli allievi, non sono previste ripetenze: pur con una struttura diversa vi è un’“aria di famiglia” con il modello scandinavo, che deriva probabilmente dalla comune religione protestante (Repubblica d’Irlanda esclusa, ovviamente). In Scozia il decentramento, già tipico di questo sistema, rimane più ampio, non essendo, tra l’altro, stato adottato il Curriculum Nazionale.
Qui si potrebbe individuare il quadro di riferimento per lo studio di un modello italiano, che però troverebbe difficilmente applicazione nel nostro Paese, per esserci qui da noi ancora un modello di istruzione sin troppo ancorato al passato. Tuttavia, la figura del docente tutore è di ampio respiro e consente il binomio dei due princìpi: quello di uguaglianza e di equità in un unico contesto sociale quale è quello dell’istruzione e dell’educazione, oggi sempre meno competitivo e sempre più rivale.
Impostazione del modello germanico: gli indirizzi separati
Questo modello, presente in Austria, Germania, Lussemburgo, Olanda, Svizzera e con alcune differenze in Belgio, mantiene la tradizionale suddivisione in tre indirizzi. Negli ultimi anni alcuni Paesi hanno cominciato a preoccuparsi di una suddivisione degli studenti così precoce (all’inizio della secondaria inferiore, com’era in Italia prima del 1962) e cercano di sviluppare un sistema di “passerelle” fra gli indirizzi. L’opzione fra indirizzi differenziati rimane comunque il fondamento di questo modello, che ha in Germania la sua massima espressione.
Il bambino tedesco, entrato nella scuola a 6 anni, dopo quattro anni di studio – con qualche differenza a seconda dei diversi Landers – deve scegliere quale strada intraprendere, anche se, teoricamente, sarebbero ancora possibili delle passerelle fra i 10 e i 12 anni di età. Oltre un terzo accede alla formazione corta (Hauptschule), seguita da una preparazione professionale che introduce al lavoro, con un’alternanza con periodi di studio, fino ai 18 anni (è il sistema duale, tanto ammirato in Italia, ma oggi messo in discussione nella stessa Germania, perché, con la crisi economica succeduta all’unificazione, le imprese non sono più in grado di offrire abbastanza stage formativi e la disoccupazione è molto aumentata). Un quarto dei ragazzi va verso una scuola media (la Realschule), che permette di accedere a una formazione superiore, solo però di tipo non universitario. Poco più di un quarto degli studenti, infine, si iscrive alla scuola secondaria generale (il Gymnasium), per seguire un curricolo che lo condurrà agli studi universitari.
La logica di questo modello è opposta a quella dei sistemi scandinavi: in questi ultimi si vuole portare tutti i ragazzi allo stesso livello a 16 anni, con le strade ancora tutte aperte, mentre in Germania l’orientamento molto precoce porta ad una situazione che, se dà assicurazioni sul futuro, le fornisce con modalità fortemente condizionate dall’estrazione sociale. Certo, l’insuccesso scolastico non costituisce un problema, visto che gli studenti vengono quasi subito suddivisi in livelli differenziati, partecipando a scuole che richiedono prestazioni molto diverse.
L’autonomia scolastica – nonostante il decentramento strutturale derivante dallo Stato Federale – non è molto ampia: il centralismo dei Landers (e l’eventuale costruzione di un’Europa delle Regioni corre appunto questo rischio) non sembra lasciare molto spazio alla libertà di gestione delle singole scuole.
L’ultima indagine comparativa sui risultati dei ragazzi quindicenni ha visto, per gli studenti tedeschi, un risultato non solo inferiore alla media, ma con differenziazioni fra i migliori e i peggiori molto ampie: poca qualità e ancor minore equità.
In Italia, il livello – nonostante si legga di classifiche oltre le più rosee previsioni – resta tuttora ancorato a valori piuttosto mediocri in termini di conoscenze e competenze degli alunni/studenti; l’equità è ancora leggermente nel futuro e ciò non ci distanzia dal medesimo risultato precedente.
Il sistema latino e mediterraneo: un “tronco comune”
E finalmente veniamo al sistema tutto latino e mediterraneo, definito anche come un “tronco comune”. Quest’ultimo modello è in vigore in Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna e sembra un tentativo di combinare i precedenti, in quanto ha scelto la soluzione di realizzare una scuola unica per la prima parte della secondaria, ma senza un’effettiva pedagogia differenziata (come in Scandinavia) e senza il tutorato (come nei Paesi anglosassoni). Rimane in questa tradizione – sono tutti Paesi cattolici, tranne la Grecia, ortodossa – un fondamentale “classicismo”, che li rende molto attenti all’acquisizione di conoscenze, con esami e ripetenze.
In alcuni Paesi, ad esempio in Francia, rimangono anche degli equivalenti parziali degli indirizzi, con classi di livello, scelte di lingue straniere, sistemi di opzione.
I Paesi latini sono generalmente più sensibili all’insuccesso scolastico contro il quale lottano e per parecchie ragioni: democratizzazione più tardiva e/o condizioni economiche meno favorevoli per certi Paesi, ma soprattutto volontà di portare l’insieme della popolazione scolastica al livello di conoscenza più alto possibile. Sono forse i Paesi che si trovano più a disagio nel loro sistema educativo poiché, sebbene molto diversi tra loro, perseguono l’ideale egualitario della scuola unica scandinava, mentre per tradizione pedagogica hanno spesso un’uniformità di metodi e delle esigenze che si traducono in frequenti controlli delle conoscenze, in vincoli di esami e di voti e in una maggiore consuetudine di ripetenza. Tutto ciò ha aperto un dibattito ancora oggi piuttosto vivo tra il ruolo della scuola e quello della famiglia: chi istruisce e chi educa. E comunque, in questi Paesi, tradizionalmente centralistici, si sta procedendo a decentramenti abbastanza ampi, che esaltano l’autonomia delle scuole, pur mantenendo programmi comuni piuttosto vincolanti. E tra le altre cose, almeno per il nostro Paese, ciò si traduce in un’operazione di svilimento, sia della professione docente che del percorso di studi del discente, allorquando si inizia a mediare sul voto, in uno scrutinio finale, al fine di consentire anche all’allievo poco diligente di proseguire gli studi, nonostante lo scarso rendimento scolastico.
In conclusione, Europa significa per un docente di storia qual è il sottoscritto, non solo un pluralismo di culture, di religioni, di storie dei sistemi politici economici, ma un’attualità di intenti che, pur nella loro autonomia e sovranità, riflette un ideale trasversale di individuo quale avente diritti e pari opportunità sociali.
È vero, è stato posto al centro delle politiche comunitarie il diritto fondamentale alla parità di opportunità per tutti i cittadini, come quello di consentire alle persone in condizioni di disabilità di sviluppare appieno le loro attività, potenziare, valorizzare e applicare efficientemente le loro capacità, considerato che, tra l’altro, ciò va a loro vantaggio e non solo, ma anche al profitto della società nel suo complesso.
Tuttavia la cornice europea dell’istruzione e dell’educazione è ancora molto lontana da finalità che riflettano il pieno diritto allo studio e all’autonomia di pensiero e azione, anche per le persone in condizione di disabilità. Sono troppe le barriere, non solo materiali, fisiche, che impediscono agli alunni/studenti la piena integrazione sociale, umana e culturale, oltre che lavorativa e professionale, come la predisposizione al pensiero universale circa il significato di conoscenza e competenza che, evidentemente, non può avvalersi delle capacità fisiche o sensoriali della persona, ma ne è l’espressione più personale ed esperienziale di un percorso di vita per cui ha messo in gioco la sua persona a prescindere dalla condizione fisico-sensoriale in cui si trovi.
Sull’istruzione, l’educazione e la formazione dovrebbero poter non solo riflettere ma governare maggiormente gli addetti ai lavori, non chi della scuola ne continua a vedere, peggio a fare il contenitore politico che, a seconda di chi governa, o è una palestra di economisti, o di saccenti burocrati.
Ma la scuola è e resterà sempre, sin quando i valori che l’hanno voluta apparterranno al pensiero libero, luogo di conoscenza, luogo di crescita e di maturazione del pensiero autonomo e per questo critico.
La persona in condizioni di disabilità ha pari opportunità di crescita e dunque di apprendimento e maturazione, proprio come chi non lo è.
Componente della Direzione Nazionale dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), Associazione nella quale coordina le Commissioni Nazionali Istruzione e Formazione e Terza Età.
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