Caro Manuel Bortuzzo, amo la Nutella, ma quel messaggio sulla vita bella dell’ultimo spot della crema patrimonio planetario mi resta in gola come quando ne mangi troppa e si ammalloppa nel gargarozzo. La vita non è bella. La vita è una dimensione che conosciamo strada facendo. Se capiti sulla corsia sbagliata, hai un bel cercare la bellezza. Garantisco io, che delle doti della bellezza faccio una ragione di vita e della vita una ragione di pensiero.
Faccio il giornalista. Seguo la disabilità nei più svariati campi da quando, il 13 settembre 1988, sono diventato tetraplegico. Da ancor prima, adolescente di belle speranze bocciato al liceo scientifico, osservo la società, convinto delle sue qualità intrinseche.
Nel tempo qualcuno mi ha definito un provocatore, ma bonariamente. Qualcun altro ha detto che non sarei in grado di essere banale neppure se lo volessi. Avrai capito che non sono tagliato per i luoghi comuni.
Fiducioso nella società, accetto i consigli di tutti. Ma certi sono veramente rompi… fai seguire tu il sostantivo che preferisci. C’è sempre qualcuno che sa dispensare la parola giusta secondo lui. E magari è proprio quella giusta giusta, quella che ti cambia la vita. Ma dovrebbe avere il buon senso di pronunciarla nel momento adatto. Dovremmo essere più comici, non ridicoli, a questo mondo. Avere più il senso della battuta. Quello del ritmo.
Dunque io sono qui per non dire niente. Il silenzio non è d’oro. Il silenzio è silenzio e ha il difetto che ci metti dentro quello che vuoi tu. Che poi è anche il suo pregio. Stimola sogni e mistifica certezze.
Dopo il tuffo in mare che mi ha paralizzato dalla testa in giù, mi hanno sedato. Ho ripreso i sensi vagamente il mattino dopo, non più in Calabria, ma nella rianimazione dell’Ospedale di Legnano. I miei, nei pochi attimi di lucidità di quei giorni fra la morte e la vita, mi infusero speranza.
Allora la speranza era proprio speranza, quasi utopia. Si sa che la differenza fra l’una e l’altra sta nell’irrealizzabilità della seconda. Sperare a quei tempi era folle. Sia di guarire sia di godere di inclusione sociale. Inclusione che? Ai tempi questa parola era sconosciuta. Al massimo potevi sperare che sarebbe arrivata qualche medicina a tirarti giù dal letto. Oppure qualche diavoleria tecnologica a consentirti di tornare a casa, a studiare e poi, chissà… La speranza muore fra le ultime cartucce dei sogni.
E nello sperare non ho mai guardato al passato. Da me non c’era un locale con una pistolettata e un percorso da campione di nuoto. C’era dell’altro, importa? Ho creduto, e credo, nel ciò che si ha invece che in quello che non si ha.
Buona la Nutella! Ma se non fosse stato per l’ambiente che mi circondava allora, dai genitori al personale infermieristico agli amici, altro che bella sarebbe stata la mia vita… Un letto d’ospedale attaccato a un macchinario e finiva lì. Pubblicitari di Ferrero, ma esattamente quando avete buttato giù lo spot da quale party venivate?
Se nasci in un Paese povero, in una famiglia disagiata al cubo, dove per tirare avanti devi crescere fra l’immondizia, lottare con quelli che vogliono portarti via il tuo bottino immondo e la prostituzione ti appare come una plausibile via d’uscita, allora che cos’ha di bello la vita? Giusto qualche cucchiaiata di Nutella…
Non facciamo l’errore di giudicare noi con i nostri occhi la vita degli altri. In fondo ciò che non era degno di essere vissuto settant’anni fa, lo poteva essere. La vita può essere bella anche in circostanze devastanti.
Ma può essere bella, non è bella a prescindere. La vita è un’occasione, punto. Se capiti nella postazione di partenza sbagliata, diventa ardito, benché non impossibile, che diventi bella.
Capitolo chiuso, parliamo di speranza. Fino a non molti anni fa da persone disabili ci si attaccava alla speranza, come inizialmente ho fatto io. Anche oggi, dove non ci sono modalità per ridurne l’impatto sulla persona, non resta che sperare. Oggi, tuttavia, abbiamo uno strumento in più e si chiama progettualità.
Chi resta persona disabile oggi può, in una crescente gamma di casi, contare sulla progettualità. Oggi è concesso pensare al futuro. Quando capitò a me di passare da un minuto per l’altro “da gran figo a gran sfigato” il futuro era vagheggiamento. Immaginazione pura. Ma la tecnologia stava predisponendo il suo prosieguo ad andare sempre più incontro alla persona, anche consentendo una maggiore socialità. Con il mio primordiale sistema di riconoscimento vocale per utilizzare il computer con la voce potevo scrivere. Buttare giù racconti, libri, lettere e svolgere il mio ruolo sociale. La speranza poteva iniziare a mutare in progettualità. Ma a cosa sarebbero serviti tanti scritti in una società impreparata a collocare la persona con disabilità nel suo organigramma sociale?
Oggi è diverso, anche se non perfetto. C’è la possibilità di progettare il tempo a venire. Lo sport è un fenomenale mezzo di autoaffermazione, scoperta e consolidamento delle proprie abilità. Oggi si può diventare campioni anche con disabilità. E senza avere meno seguito dei campioni ordinari.
Resta difficile lavorare. Lo è altrettanto muoversi in piena libertà, perché l’abbattimento delle barriere architettoniche è un piano tutto da completare. E le barriere nella testa della gente, quelle ci sono sempre. Ma meno, ti assicuro.
Ora, Manuel carissimo, io spero non perda il tuo senso critico. Se non ce l’hai, acquistalo nei giorni in cui potrai riempire il silenzio attorno a te di cose buone. Di ragionamenti ponderati sulla vita.
Io attendo la tua progettualità. Fuori da dove sei adesso, ma anche già dove sei. Il mondo necessita di te.
Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Caro Manuel, credimi: la vita si può progettare comunque (anche senza Nutella)”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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