I dati riportati dall’Ottava Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della Legge 68/99 (anni di riferimento: 2014-2015) non possono darci più di tante informazioni relativamente agli effetti su tale norma generati dall’adozione del Decreto Legislativo 151/15 (il cosiddetto Jobs Act). Quella Relazione, infatti, è uscita con un certo ritardo e sicuramente la portata delle modifiche del Jobs Act potrà essere compresa meglio in riferimento al biennio successivo (anni 2016-2017). Ad oggi possiamo dire che l’estensione della chiamata nominativa – autentica rivoluzione che va quasi a fare scomparire la chiamata numerica – fa segnalare un aumento degli avviamenti al lavoro proprio in concomitanza con l’emanazione del Decreto Legislativo 151/15. La Legge 68 aveva bisogno di una “scossa”, questo è certo, ma è solo con la Nona Relazione sul suo stato di attuazione che potremo avere un quadro più definito sulla tendenza.
È poi proprio delle scorse settimane l’uscita di una notizia, ripresa da «Superando.it», che fa davvero riflettere e che ha una rilevanza europea: il Gruppo di Studio sulla Disabilità del CESE, organo consultivo dell’Unione Europea, ha evidenziato come i lavoratori con disabilità siano ancora a forte rischio di esclusione per pregiudizio e stigma, nonostante il loro impatto sul lavoro possa essere molto positivo.
Come Jobmetoo, startup nata nel 2012 per mano di una persona con disabilità uditiva [lo stesso Daniele Regolo che firma il presente testo, N.d.R.] che ha vissuto sulla propria pelle le criticità del collocamento mirato e che oggi si pone come interlocutore di primo piano per le aziende che devono ottemperare all’obbligo reclutando “categorie protette”, siamo convinti che sulla scia di quei timidi ma significativi miglioramenti, sia venuto il momento di condividere pubblicamente 5 Azioni che possano rendere più moderno, efficace e anche più rispettoso il rapporto tra lavoratori con disabilità e mondo dell’occupazione.
5 Azioni per indicare un possibile percorso, imprimere una svolta, ma anche perché l’Italia – ripresa nel 2013 dalla Corte di Giustizia Europea, per il fatto di non rispettare la Legge 68/99 – possa diventare ispiratrice di un rinnovamento in àmbito europeo e internazionale, in quanto non esistono terre felici e tutti i Paesi, anche i più avanzati, si trovano ad affrontare la complessa questione del lavoro delle persone con disabilità, come dimostra la menzionata ricerca europea.
1. Un percorso verso la graduale abolizione dell’obbligo di assunzione
È fin troppo evidente che dal mondo delle imprese tale imposizione viene recepita, e di conseguenza elaborata, con riluttanza, sfiducia, pessimismo. Questa premessa non è certo la migliore. Le imprese più virtuose, quelle che sono disposte ad assumere al di là dell’obbligo, percepiscono comunque un peso “morale” molto forte. Nel contempo, il candidato che entra in azienda con questo tipo di humus non può aspettarsi un trattamento veramente alla pari degli altri dipendenti. In conclusione: eliminare l’obbligo significa rimodulare l’incontro tra azienda e candidato su una base diversa e più moderna, soprattutto più equa.
Tale incontro deve avvenire esclusivamente sulle competenze e sulla reale compatibilità tra condizione del lavoratore e necessità dell’azienda e il sistema dovrebbe diventare integralmente premiante: tanto più l’Azienda assume persone con disabilità, tanto maggiori saranno gli incentivi e le agevolazioni fiscali.
2. Istituzione di una normativa antidiscriminazione molto stringente
Con una tempistica strettamente correlata al punto precedente, introdurre una normativa antidiscriminazione che contribuisca a rovesciare la prospettiva: nessun lavoratore è considerato da tutelare o proteggere – in riferimento alla sua autodeterminazione – ma nessun lavoratore può essere discriminato. Deve esistere un apposito fondo che consenta al lavoratore discriminato di poter tutelare la propria posizione. Il tutto nei limiti dell’”accomodamento ragionevole”, istituto estremamente avanzato, che dev’essere maggiormente diffuso ed esteso e di cui si parlerà nel successivo quarto punto.
3. Obbligatorietà di un disability manager a supporto delle aziende private
Figura autonoma rispetto agli altri manager di linea, il disability manager rappresenta l’interiorizzazione della disabilità nella cultura aziendale. Il vecchio processo, che vedeva «il disabile che entra in azienda accompagnato da esperti, psicologi, associazioni, tutor, interpreti…» evolve in un nuovo processo: «Il disabile viene accolto in azienda, nella quale entra con le proprie gambe e senza essere accompagnato (fin quando possibile)».
Il disability manager è colui che opera per creare le condizioni affinché il lavoratore con disabilità possa agire nel pieno delle sue potenzialità, diventando una risorsa produttiva, e parimenti aiuta l’azienda di cui fa parte a capire e gestire la disabilità in maniera naturale e senza traumi.
4. Fondo ad hoc per gli “accomodamenti ragionevoli”
Introdotto dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ripreso dalla Direttiva Europea 2000/78/CE e ridefinito in Italia dal già citato Decreto legislativo 151/15, l’istituto dell’“accomodamento ragionevole” rappresenta l’anello mancante per mettere il lavoratore con disabilità nelle condizioni di agire in condizioni di pari opportunità. Istituire un fondo ad hoc supporta il disability manager aziendale nel processo di inserimento del lavoratore con disabilità.
5. Valorizzazione della rete e dei servizi territoriali
Il grande patrimonio rappresentato dalle Associazioni di persone con disabilità, che posseggono tra l’altro un patrimonio di conoscenza di alto valore (spesso non adeguatamente noto), e dal mondo delle Cooperative (canali ideali per gestire, dal punto di vista lavorativo, le disabilità più complesse attraverso servizi che si forniscono alle aziende in outsourcing [“esternalizzazione”, N.d.R.], come avviene oggi ai sensi dell’articolo 14 del Decreto Legislativo 276/03), riceve impulso dalla presenza del Disability manager che, dalla sua posizione privilegiata, conosce queste realtà e può supportarle valorizzandole al meglio, nel segno di un legame sempre più forte tra azienda e territorio di riferimento.
Un principio di sana concorrenza e di ottimizzazione delle sinergie sarà, per le Associazioni, un segno del loro progresso verso una gestione più manageriale del non profit.
Il linguaggio conta, perché le parole danno la forma al mondo che viviamo. Non si dice più “diversamente abile” e non dovremmo (e non dovremo) usare più l’espressione “inclusione lavorativa”. Il termine “inclusione”, infatti, presuppone due o più insiemi, mentre le persone del mondo sono un unico insieme, difficilmente categorizzabile. Un insieme sempre più complesso, certamente, ma uno e indivisibile.
Non saranno questi cinque punti a far cadere l’obbligo di legge tra qualche giorno, e ogni azione richiede i giusti tempi di maturazione. Il tempo per parlarne, però, è arrivato, e tutti coloro che sono davvero interessati a rendere le persone con disabilità realmente artefici del proprio destino e le aziende sempre più produttive sono chiamati a sposare una visione che, ci si augura, in un domani diventerà realtà.