Dobbiamo ringraziare Eluana Englaro*. Senza di lei non si sarebbe alzato il velo sulla condizione delle persone in stato vegetativo e minima coscienza. Una condizione che è stata conosciuta a livello internazionale. Ma se la vicenda del padre e la sua battaglia per il fine vita hanno avuto ampia diffusione sui media, così non è stato e non è per le migliaia di persone che vivono la stessa condizione e chiedono servizi, assistenza, condivisione, sostegni economici, per una vita difficile che vorrebbero fosse vissuta con dignità e rispetto. Non in solitudine.
La “libertà di scelta” non deve essere contrapposta al “diritto di cura”. Nel progresso e nelle conquiste di libertà, dov’è la libertà delle famiglie che vivono in “carceri senza barriere” che le costringono ad annientarsi per un proprio caro che vive una condizione estrema? E qualcuno potrebbe anche dire: «Ma chi glielo fa fare?»…
Ecco, questo è il punto. È la domanda che è sbagliata. Glielo fa fare la stessa voglia di vivere che hanno tutti. È una situazione che non hanno scelto. Si sono trovate in quella condizione che sentono come un’ingiustizia, con una rabbia che solo loro possono conoscere e che noi possiamo solo immaginare. Quello che riescono a tirar fuori, oltre al coraggio che tutti da qualche parte abbiamo, è l’amore: nel ricordo della persona di prima e nel presente di quella parte che è rimasta, della voglia di ricominciare un nuovo progetto di vita verso un obiettivo che non può essere solo la morte. E noi non possiamo girarci dall’altra parte. Perché dall’altra parte troviamo le battaglie per il fine vita, che pure rispettiamo, ma vorremmo che qualcuno guardasse anche dalla nostra parte, per il diritto di cura di cittadini non “di serie B”. Questi chi li rispetta?
Ricordo alcuni incontri con Beppino Englaro, papà di Eluana, nelle scuole e negli studi televisivi. Ricordo, al di là della sua battaglia personale, il suo dichiarare di non voler essere contro le persone in stato vegetativo. Ma il messaggio che passa è diverso. Perché, se abbiamo come priorità solo il fine vita, viene meno il diritto all’assistenza, specialmente quando colui che vogliamo assistere fa paura alla società che non lo riconosce e lo esclude, mentre lui ci guarda con occhi nei quali percepiamo un barlume di coscienza che altri non vedono. È quel “sento che ci sei” che le famiglie riconoscono, perseguono, affinando nuovi strumenti di comunicazione.
Insieme alla famiglia di Michael Schumacher che esige privacy, ci sono Associazioni che rappresentano familiari che vivono, come tutti, nelle loro case e dicono: «Venite a vedere come viviamo, contateci, aiutateci».
L’altro giorno a Roma, al Ministero della Salute, per la seconda Conferenza Nazionale di Consenso sul coma, lo stato vegetativo, la minima coscienza e la grave cerebrolesione acquisita [se n4e legga su queste stesse pagine, N.d.R.], il movimento associativo nazionale che si occupa di queste problematiche ha ribadito anche questo.
Il mondo è quello che noi tutti ci costruiamo e che vorremmo condividere senza disuguaglianze. «Trafitto dallo stesso raggio di sole: ed è subito sera».
*A seguito di un incidente stradale, Eluana Englaro ha vissuto in stato vegetativo per diciassette anni, fino alla morte avvenuta il 9 febbraio 2009. Il suo caso diede vita a una lunga vicenda giudiziaria tra la famiglia sostenitrice dell’interruzione del trattamento e la giustizia italiana, diventando, sul finire della vicenda, anche un caso politico. La Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 26 novembre 2010 ha stabilito che il 9 febbraio di ogni anno, coincidente appunto con la data del decesso di Eluana, diventasse la Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi.