In queste ultime settimane ho avuto modo di leggere alcuni articoli, uno dei quali pubblicato da «la Repubblica» (Scuola, Anief: “Sì alla rotazione per docenti di sostegno”) e gli altri su queste stesse pagine, ovvero Assistenti all’autonomia e alla comunicazione alla ricerca di un riconoscimento, curato da Michele Peretti, e i due pubblicati rispettivamente dagli amici Salvatore Nocera e Marco Condidorio, Non moltiplicare le cose, se non ve n’è necessità! e L’Educatore Tiflologico non è copia, ma sostanza.
Articoli certamente molto diversi tra loro, ma tutti incentrati sul dibattito riguardante le figure che “ruotano” attorno all’alunno con disabilità, per cercare di definirne ruoli, aspetti giuridici e funzioni, con particolare riferimento al docente per il sostegno e all’assistente alla comunicazione. La loro lettura mi ha indotto a condividere, sia pure in modo sintetico, una riflessione sulla “cornice” giuridico-funzionale all’interno della quale queste diverse figure operano.
Nelle considerazioni sviluppate in quei quattro articoli, mi è sembrato non si tengano presenti le conseguenze derivanti dalla Legge di Bilancio dello scorso anno [Legge 205/17, N.d.R.], dove vengono “normate” le professioni dell’educatore socioeducativo e quella del pedagogista, istituendone i relativi Albi Professionali e indicandone i rispettivi percorsi formativi.
Allo stesso modo, sempre in quegli articoli non vi è alcun riferimento al fatto che alcune Università, in attuazione delle norme transitorie di quella stessa Legge, hanno già attivato i percorsi formativi, per consentire a chi già opera nel settore e non ha il titolo di educatore o di pedagogista di acquisirne la qualifica, prima che il possesso dei titoli indicati dalla legge diventino vincolanti per l’iscrizione agli Albi Professionali.
A tal proposito va altresì sottolineato che l’articolo 13, comma 3 della Legge 104/92 non indica delle figure professionali, bensì delle “funzioni”, che devono essere svolte ad integrazione di quella del docente per il sostegno. Funzioni che finora sono state affidate agli stessi operatori che vengono impiegati nell’extra-scuola per i servizi di “educativa domiciliare”, realizzati a carico degli Enti Locali. Sono proprio molti di questi operatori, privi di titolo specifico, a frequentare i corsi richiamati sopra, per acquisire la qualifica di “educatore” e potersi così iscrivere al costituendo Albo Professionale.
Ragionamento e proposte fatti senza tenere conto di questa realtà, prospettando definizioni di profili, Albi e inquadramenti giuridici che stiano al di fuori dalle due figure professionali individuate dalla Legge, oltre a moltiplicare i ruoli, mi sembrano oggi “fuori contesto”: è in questi due àmbiti, infatti, che andranno inserite le figure che dovranno operare a favore dell’inclusione scolastica, se si vuole offrir loro future qualificate possibilità occupazionali (ad esempio, quelli che svolgono funzioni di assistente alla comunicazione tra gli educatori, e quella dell’esperto in Scienze Tiflologiche, tra i pedagogisti). Figura, quella del pedagogista, della quale – come ho cercato di spiegare tempo fa in un articolo pubblicato su queste stesse pagine [“Serve il pedagogista, per superare l’emergenza educativa”, N.d.R.]– la scuola inclusiva non può più fare a meno.
Dopo quarantacinque anni dai primi inserimenti, prima di dibattere sul ruolo, le competenze e le modalità di impiego delle diverse figure che devono agire “attorno” all’alunno con disabilità per garantirne l’inclusione, credo sia giunto il tempo di fare un’analisi e una profonda riflessione pedagogica sul come questa si sia venuta realizzando nel corso degli anni, di definirne i “modelli operativi” e, al loro interno, la funzione del docente per il sostegno, modello e funzione che di questi tempi ciascuno sembra interpretare sempre più a modo proprio.
D’altro canto, sul “come” debba essere organizzato il modello operativo di inclusione, la normativa dice ben poco. In estrema sintesi: per la scuola dell’obbligo si limita ad indicare, nella Legge 517/77, che per far sì che l’integrazione possa realizzarsi, è necessario un adeguamento del “contesto scuola” nel cui àmbito potrà operare un docente a sostegno della classe.
Per quanto poi riguarda la scuola secondaria di secondo grado, quando la Sentenza della Corte Costituzionale 215/87 estenderà il diritto di frequenza della scuola di tutti anche a questo ordine di studi, nessuna particolare riflessione verrà fatta sulle modalità di organizzazione del modello operativo di inclusione, ma ci si limiterà ad emanare Circolari più che altro mirate alle modalità di valutazione.
La stessa Legge 104, per quanto riguarda le “modalità di integrazione”, pur definendone gli strumenti (Profilo Dinamico Funzionale; Piano Educativo Individualizzato; Accordi di Programma), all’articolo 13, comma 1, lettera E, fa riferimento a progetti da predisporre ai sensi del DPR 419/74 e quindi ancora sperimentali. Allo stesso modo – al di là del ribadirne la contitolarità sulla classe – in essa rimangono indefiniti le funzioni e il ruolo del docente per il sostegno, anzi, proprio nella Legge 104 trova origine una contraddizione: il numero delle ore di sostegno, infatti, dovrebbe essere definito dal GLH (Gruppo di Lavoro Handicap) di Istituto (articolo 15, comma 2), sulla base di quanto indicato dal Piano Educativo Individualizzato, ma poiché l’articolo 3 della stessa Legge “lega” l’entità degli interventi di supporto alla gravità della disabilità, pian piano saranno le Diagnosi Funzionali – quando non i Tribunali Amministrativi Regionali – a definire il numero delle ore di sostegno necessarie.
Ecco perché ritengo vane, quando non fuorvianti, le diverse proposte espresse negli articoli sopra citati e non più rinviabile una riflessione pedagogica mirata a definire i “modelli operativi di inclusione”.
La mia riflessione sulla storia dell’inclusione parte da un’esperienza personale vissuta “dal di dentro” sin dal 1972, una storia iniziata con l’inserimento, proseguita con l’integrazione e ora diventata quella dell’inclusione degli alunni con disabilità, una storia in cui sono cambiate le “definizioni”, ma dietro alle quali continuano tuttavia a “sperimentarsi” modalità operative, quasi sempre senza il coinvolgimento del contesto scolastico e sociale e senza che negli anni alle nuove definizioni sia corrisposta l’elaborazione di modelli operativi generali.
Parlo di modelli al plurale, perché sempre più convinto che modello applicativo e ruolo del sostegno non possano essere gli stessi nei diversi ordini di scuola. Non possiamo pensare infatti che l’inclusione degli alunni con disabilità nella scuola di tutti possa concretizzarsi secondo un unico modello operativo, quando sappiamo che, nella “scuola reale”, la preparazione pedagogico didattica di base dei docenti titolari è molto diversa. Nella scuola primaria essi hanno una completa formazione pedagogico didattica di base, mentre in quella secondaria i docenti delle varie discipline hanno alle spalle un percorso formativo disciplinare, dove quasi sempre la pedagogia e la didattica sono assenti.
Allo stesso modo non si può prevedere la medesima organizzazione delle modalità di inclusione nella scuola secondaria di primo grado e in quella di secondo grado, dove le finalità, gli obiettivi e le modalità di valutazione sono molto diversi. In quella di primo grado, infatti, trattandosi di scuola dell’obbligo, al termine è comunque previsto il rilascio del diploma, purché l’alunno abbia raggiunto gli obiettivi fissati dal Piano Educativo Individualizzato. Quella di secondo grado, invece, oltre a cercare di ottenere da ciascun allievo tutto ciò che potenzialmente può dare, è finalizzata al raggiungimento di obiettivi oggettivi, necessari a fornire al giovane le conoscenze e le competenze che servono per il suo futuro lavorativo o universitario, in mancanza dei quali il diploma non verrà rilasciato.
Fermo restando che l’inclusione nella scuola di tutti è il modo vincente per la scolarizzazione degli alunni con disabilità, non si esce dall’attuale “crisi” circa la loro reale inclusione, ipotizzando interventi di nuovi esperti, per garantirne il successo, ma valutate le conseguenze della recente normativa sugli educatori e i pedagogisti, e analizzati i punti di forza e quelli di debolezza emersi in questi anni nel processo di inclusione, occorre che la “comunità pedagogica” trovi il coraggio di procedere ad un’elaborazione di modelli operativi di inclusione generalizzabili, da proporre ai diversi ordini di scuola e capaci di rendere effettivo il “diritto di inclusione”. Si otterrà così l’indispensabile “cornice” giuridico funzionale di riferimento per definire ruoli, competenze, funzioni e modalità operative delle diverse figure (insegnante per il sostegno, pedagogista ed educatore), senza ricorrere a ipotesi aprioristiche, ma tenendo conto dei contesti giuridico e operativo nel quale queste andranno a formarsi prima, e ad operare poi.