Con la Legge Regionale n. 33 del 2 agosto 2018 (Istituzione del reddito di libertà per le donne vittime di violenza), il Consiglio Regionale della Sardegna ha istituito il “Reddito di libertà” (d’ora in poi sempre RDL).
L’analogia terminologica con altre misure di carattere economico, quali il “Reddito di inclusione” o il “Reddito di cittadinanza”, non deve trarre in inganno. Infatti, queste ultime sono misure di contrasto alla povertà, mentre l’RDL è una misura di contrasto alla violenza di genere. «La Regione autonoma della Sardegna – si legge infatti all’articolo 1 di tale norma – opera attivamente affinché ogni donna vittima di violenza domestica in condizione di povertà materiale superi la condizione di dipendenza economica, soprusi, ricatto e sia posta in condizione di accedere ai beni essenziali e di partecipare dignitosamente alla vita sociale».
In sostanza l’RDL consiste in un patto tra la Regione e la donna vittima di violenza, con o senza figli minori, mediante il quale la beneficiaria, in cambio del sostegno garantito dalla misura introdotta, si impegna a partecipare a un progetto personalizzato, finalizzato all’acquisizione o alla riacquisizione della propria autonomia e indipendenza personale, sociale ed economica.
La misura è stata introdotta in via sperimentale con uno stanziamento di 300.000 euro, e verrà corrisposta per un periodo che andrà dai dodici ai trentasei mesi. A copertura del provvedimento è stato istituito il “Fondo regionale per il Reddito di libertà” nel quale confluiscono le risorse europee, statali e regionali iscritte in bilancio, con destinazione coerente rispetto alle misure previste dalla Legge in questione; esso attinge, pertanto, a fondi finalizzati al contrasto alla violenza contro le donne.
La condizione di donna vittima di violenza è certificata dai Servizi Sociali del Comune di residenza o da quelli del Comune di nuovo domicilio, in caso di allontanamento anche volontario dal Comune di residenza. Gli stessi Servizi Sociali si raccordano con i Centri Antiviolenza o con le Case di Accoglienza. La domanda di accesso all’RDL va presentata al Comune di residenza o a quello in cui si è stabilito il domicilio, in caso di allontanamento anche volontario dal Comune di residenza; la procedura è senza oneri per le aventi diritto, ed è compito dell’Amministrazione Pubblica acquisire i certificati relativi alla pratica o, comunque, garantire la copertura degli eventuali costi. Dal canto loro, i Comuni, in raccordo con i Centri Antiviolenza e gli altri soggetti coinvolti, progettano per ciascuna beneficiaria un piano personalizzato di interventi finalizzati al sostegno e all’emancipazione della donna vittima di violenza e dei suoi figli.
La Legge fornisce alcuni esempi dei tipi di interventi che possono essere previsti, singolarmente o congiuntamente, nei piani personalizzati: l’erogazione di un sussidio economico; l’accesso ai dispositivi delle politiche attive del lavoro in materia di occupazione e di formazione finalizzata; l’avvio all’autoimpiego attraverso l’utilizzazione dei percorsi previsti dalla legislazione in materia, o con incentivi per favorire l’inizio di un’attività in proprio; l’aiuto economico per favorire la mobilità geografica per far fronte alla violenza ed al pericolo; la garanzia della continuità scolastica per i figli minori e maggiorenni che debbano completare il ciclo di istruzione.
Vengono inoltre individuati dei vincoli: il sussidio economico non è utilizzabile per l’acquisto e il consumo di tabacco, alcol, sostanze stupefacenti e qualsiasi prodotto legato al gioco d’azzardo, pena la decadenza dal beneficio. Le donne affette da dipendenze patologiche beneficiano dell’RDL solo nel caso in cui abbiano intrapreso un percorso riabilitativo; in tali situazioni il sussidio è gestito da un familiare o da un responsabile che affianchi la donna nel percorso.
Ulteriori dettagli applicativi dovranno essere indicati attraverso le Linee Guida, in fase di definizione e approvazione da parte della Giunta regionale.
A questo punto va sottolineato che la versione originaria dell’articolo 5, comma 2 della nuova Legge Regionale accordava priorità d’accesso alla misura «alle donne con figli minori o con disabilità certificata ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate)». Questa formulazione, pertanto, riserva a queste donne un trattamento di riguardo (o, se si preferisce, una maggiore protezione), che induce a supporre che il Consiglio Regionale della Sardegna abbia ritenuto che le madri di figli minori e le madri di figli con disabilità vittime di violenza si trovino in una situazione più svantaggiata rispetto alle altre donne vittime di violenza. Si tratta di una valutazione con la quale possiamo concordare, se consideriamo che nei casi di violenza domestica frequentemente i padri si servono dei figli minori per ricattare le madri ed agire un controllo su di esse, e che nel caso vi siano figli con disabilità (anche maggiorenni), le madri che prestano loro assistenza (e dunque svolgono il ruolo di caregiver) sono soggette a maggiori vincoli rispetto alle altre donne.
E tuttavia, tale valutazione è apparsa insufficiente e iniqua, osservando che essa non ha rilevato che anche le donne con disabilità vittime di violenza si trovano solitamente in situazione di maggiore svantaggio rispetto alle altre donne vittime di violenza. Esse, infatti, sono esposte ad una discriminazione multipla, dovuta alla circostanza di essere soggette sia alle discriminazioni subite dalle donne, sia a quelle subite dalle persone con disabilità (come riconosciuto dall’articolo 6 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge 18/09).
Stando agli ultimi dati ISTAT disponibili (riferiti all’anno 2014), esse sono più esposte a violenza rispetto alle altre donne: il rischio, ad esempio, di subire stupri o tentati stupri è doppio (10% contro il 4,7% delle donne senza problemi); nei casi di disabilità, inoltre, che comportano non autosufficienza, potrebbero ritrovarsi a dipendere dall’assistenza del proprio aggressore nello svolgimento degli atti quotidiani della vita; e ancora, sono soggette a scontrarsi con l’inadeguatezza e l’inaccessibilità dei Servizi Antiviolenza, che solo in rarissimi casi sono preparati ad accogliere donne con diverse disabilità; e da ultimo, ma non ultimo, sono più esposte al rischio di povertà, perché la presenza di una disabilità influisce negativamente a livello occupazionale (tra chi ha limitazioni funzionali, invalidità o cronicità gravi, risulta occupato il 52,5% degli uomini contro il 35,1% delle donne, dato di fonte relativi all’anno 2013, dato di fonte ISTAT, relativo all’anno 2013), ed è frequentemente causa di impoverimento.
Tutte queste considerazioni hanno indotto il nostro Centro Informare un’h a pubblicare un testo nel quale, pur valutando positivamente l’introduzione in Sardegna dell’RDL, denunciava la mancanza di un’attenzione specifica per le donne con disabilità vittime di violenza.
Quello stesso testo è stato sottoposto all’attenzione del Consiglio Regionale della Sardegna, in modo da concedere allo stesso il diritto di replica. L’8 agosto, dunque (la Legge era stata approvata solo sei giorni prima), la consigliera regionale Alessandra Zedda, prima firmataria della Legge, ha contattato il nostro Centro, ci ha ringraziato per le osservazioni e si è impegnata ad introdurre nella disciplina del “Reddito di libertà” delle modifiche che avrebbero tenuto in considerazione le questioni sollevate.
Ebbene, l’impegno è stato onorato, con l’approvazione, da parte del Consiglio Regionale della Sardegna, della Legge Regionale 40/18 (Disposizioni finanziarie e seconda variazione al bilancio 2018-2020), nella quale è stato appunto inserito un emendamento (articolo 5, comma 68) al citato articolo 5, comma 2 della Legge Regionale 33/18, che accorda una priorità d’accesso all’RDL anche alle donne vittime di violenza con disabilità certificata ai sensi della Legge 104/92. Per la prima volta, quindi, una Legge italiana – sebbene Regionale – ha modulato una misura di contrasto alla violenza di genere, tenendo conto della discriminazione multipla a cui sono soggette le donne con disabilità. Si tratta certamente di un apprezzabile precedente giuridico.
Il tempo ha un peso relativo. Se pensiamo al cosmo, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, anche un milione di anni sembra niente. Se consideriamo la vita delle persone, anni, lustri e decenni appaiono come le unità di misura più consone a definirne la consistenza. Ma se parliamo di violenza, il tempo assume un peso specifico elevatissimo perché ogni minuto, ogni ora e ogni giorno di esposizione ad essa comporta, per la vittima, una progressione nel processo di annientamento. Per questo motivo suscita una particolare ripugnanza il pensiero che, per le donne in condizione di povertà materiale, i tempi di esposizione alla violenza si possano dilatare all’infinito, con la devastazione che ne consegue.
L’RDL introdotto in Sardegna cerca di mettere un argine a tutto questo, e lo fa senza adottare una politica assistenzialista: la circostanza, infatti, che l’accesso alla misura sia subordinato alla predisposizione di un progetto personalizzato di autonomia e indipendenza personale, sociale ed economica della donna, e la considerazione che l’intervento abbia carattere temporaneo (il contributo può essere corrisposto per un arco temporale che va da uno a tre anni), inducono a ritenere che esso abbia davvero (almeno potenzialmente) un carattere emancipante, e che non produca il discutibile effetto di sostituire una dipendenza economica con un’altra. Gli esiti della sperimentazione permetteranno di verificare questa ipotesi.
Una delle difficoltà più frequenti riscontrate dalle donne con disabilità vittime di violenza è l’inaccessibilità dei servizi e delle misure di contrasto alla violenza stessa, ma sotto questo profilo l’RDL può considerarsi una misura adeguata. Infatti, essendo uno strumento di carattere economico, la sua accessibilità non richiede particolari accorgimenti (se non nella sua pubblicizzazione in differenti formati e supporti).
L’accessibilità è un criterio di valutazione fondamentale, ma se ci fermassimo ad essa, non saremmo in grado di cogliere altri importantissimi aspetti. In particolare non riusciremmo a rilevare alcune forme di discriminazione indiretta.
In tal senso va citato l’articolo 2, comma 3, della Legge 67/06 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni) il quale stabilisce che «si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone». Nel caso specifico, le donne con disabilità potevano accedere alla misura in questione, ma le procedure di accesso, non tenendo in nessuna considerazione il maggiore svantaggio generato dall’essere soggette a discriminazione multipla, lasciavano di fatto inalterata questa disuguaglianza. Avendo infatti la Legge considerato in un primo tempo le donne con disabilità semplicemente come donne, non era stata capace di intercettare le loro specifiche esigenze di persone con disabilità. Se, viceversa, la norma le avesse considerate solo come persone con disabilità, non avrebbe rilevato che esse, in quanto donne, sono esposte alla violenza di genere.
Questa vicenda, dunque, mostra in modo inequivocabile che l’unica strada per dare risposte adeguate al fenomeno della violenza nei confronti delle donne con disabilità è lavorare in prospettiva intersezionale, che vuol dire prendere simultaneamente in considerazione due o più variabili potenzialmente discriminanti (nel caso in questione, il genere e la disabilità), e la loro intersezione.
Un ultimo elemento degno di nota è la convinzione, abbastanza diffusa, che predisporre servizi adeguati alle donne con disabilità comporti sempre un aggravio economico. È vero che talvolta è così – e se anche fosse, stiamo parlando della tutela di diritti fondamentali, quali l’uguaglianza, la libertà, la salute, l’integrità, la sicurezza e la dignità della persona, dunque sarebbero soldi ben spesi -, ma non è questo il caso: stabilire infatti che anche alle donne con disabilità vittime di violenza (al pari delle madri di figli minori e delle madri di figli con disabilità) sia accordata priorità di accesso all’RDL non comporta alcun onere economico aggiuntivo.
La questione, quindi, non è tanto quella di far quadrare i conti, quanto, piuttosto, quella di far quadrare i diritti, acquisendo nuove competenze, e disponendosi a lavorare con la flessibilità e la fantasia necessarie e sufficienti a consentire di dare risposte appropriate a situazioni molto differenti tra loro, garantendo a tutte le donne l’uguaglianza sostanziale, e impedendo che ci siano discriminazioni fondate sulla disabilità.
Per approfondire:
° Simona Lancioni, “Reddito di libertà”, nessuna attenzione specifica per le donne disabili vittime di violenza, in sito di «Informare un’h», 6 agosto 2018.
° Simona Lancioni, Interventi in tema di violenza nei confronti delle donne con disabilità, in sito di «Informare un’h», 23 maggio 2018.
° Sara Carnovali, Il corpo delle donne con disabilità. Analisi giuridica intersezionale su violenza, sessualità e diritti riproduttivi, prefazione di Ilaria Mazzei, Roma, Aracne editrice, 2018 (se ne legga approfonditamente anche in «Superando.it»).
Per approfondire ulteriormente il tema Donne e disabilità, fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, oltreché alla Sezione Donne con disabilità nel sito di Informare un’h. Sullo specifico tema della violenza, inoltre, accedere sempre al sito di Informare un’h, all’altra Sezione intitolata La violenza nei confronti delle donne con disabilità.