Su queste stesse pagine, l’amico Luciano Paschetta [si legga il testo da noi pubblicato: “Inclusione sì, ma con quale modello?”, N.d.R.] ha sviluppato una propria riflessione sul dibattito che ci vede coinvolti in modo diretto dal punto di vista associativo, in modo personale e professionale da quello soggettivo. Tuttavia, in veste di responsabile politico dell’Istruzione e della Formazione dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), avverto la necessità di rappresentare il disagio – tutto argomentativo e teoretico – che avvolge in modo nebuloso il concetto stesso di “Educatore” e che, in qualità di esperto di istruzione e formazione e di docente incaricato presso i corsi del Dipartimento delle Scienze Umanistiche, Sociali e della Formazione dell’Università del Molise, nei corsi rivolti ai futuri docenti per il sostegno didattico, nota come i termini e i ruoli non sempre coincidano e che anzi, ultimamente, siano la ragione per cui vige una sorta di “anarchia” nel tentativo di circoscrivere il curricolo cui far seguire in uscita la figura professionale che coincida col ruolo.
L’amico Salvatore Nocera prima [si legga il testo da noi pubblicato: “Non moltiplicare le cose, se non ve n’è necessità!”, N.d.R.] e Luciano Paschetta poi, propongono il tema della formazione seguendo sostanzialmente due prospettive differenti: il primo, rispetto al rischio del loro “moltiplicarsi”; il secondo pone l’attenzione sul processo storico che la formazione ha assunto nella definizione delle stesse figure professionali, facendo un esplicito riferimento alla normativa che istituisce le seguenti figure: quella dell’Educatore Socio-Pedagogico e quella del Pedagogista (Legge 205/17, commi 594-601).
Di qui la richiesta di una “mozione d’ordine”: a mio avviso, infatti, è importante risolvere l’errore interpretativo riguardo sia il curricolo che la definizione di “Educatore Tiflologico”, da intendersi quale curricolo specifico che è bene che assuma chi oggi svolge il ruolo di assistente alla comunicazione e per l’autonomia, ruolo che non può essere definito “funzione a sostegno dell’integrazione”, come scritto da Paschetta, quando si riferisce al comma 3 dell’articolo 13 della Legge 104/92, se pure la stessa manifesti questo concetto.
Nel suo articolo si legge: «D’altro canto, sul “come” debba essere organizzato il modello operativo di inclusione, la normativa dice ben poco. In estrema sintesi: per la scuola dell’obbligo si limita ad indicare, nella Legge 517/77, che per far sì che l’integrazione possa realizzarsi, è necessario un adeguamento del “contesto scuola” nel cui àmbito potrà operare un docente a sostegno della classe».
Ebbene, in quel momento non avevamo alcun docente per il sostegno didattico né alcuna figura che svolgesse la funzione di “assistente”. Nel 1977 noi vivevamo giorni, settimane, mesi in cui per uno studente cieco assoluto la traduzione di un testo dal greco all’italiano, dal latino, piuttosto che dal francese, dall’inglese o dal tedesco, era un esercizio di memoria di conoscenza, di competenze; non avevamo né supporti informatici, tecnologie di alcun genere o altre diavolerie, eravamo immersi in un contesto didattico ed educativo coerente e ordinato, diretto ed estremamente istruttivo, ancorché formativo, eppure dal 1975 al 1977 ha prevalso il sistema di pensiero secondo cui tutto questo doveva essere definitivamente superato, optando per la cosiddetta strada “dell’integrazione”.
Strada su cui oggi mi si consenta una riflessione, quale elemento proprio di chi svolge da anni studi afferenti l’educazione e la socializzazione delle persone in condizioni di cecità assoluta o parziale e che va ben oltre il valore storico, forse un poco ideologico, e che oggi viceversa approda ad una valutazione sociale, culturale e umana: l’integrazione riguarda il processo di istruzione e di formazione del fanciullo in condizioni di minorazione visiva; riguarda la sua maturità, oltreché il contesto familiare e sociale in cui vive, null’altro.
Quali dunque le figure didattico/educative più indicate?
Come allora, ancora oggi questo quesito sembra essere senza risposta. La risposta, invece, sta nella verità secondo cui le figure dell’Educatore Socio-Pedagogico e quella del Pedagogista non sono risolutive ai fini della politica sull’istruzione, l’educazione e la formazione volta a realizzare l’integrazione e l’inclusione scolastiche dei nostri alunni del primo ciclo (dalla scuola primaria alla secondaria di primo grado) e degli studenti della secondaria di secondo grado.
Le figure che si interfacciano direttamente con l’alunno/studente, che con questi interagiscono dal punto di vista dell’istruzione, dell’educazione e della formazione, hanno il nome di insegnante, docente e, a mio personale avviso, non quello dell’assistente alla comunicazione e per l’autonomia, che non dovrebbe difatti svolgere un ruolo vicariante, ma educativo. Hanno invece il nome di Educatore Tiflologico, quando ci riferiamo ad alunni e studenti in situazione di minorazione visiva e/o con minorazioni aggiuntive.
Non si trova scritto da nessuna parte che l’integrazione e l’inclusione scolastiche debbano passare necessariamente attraverso più figure educative, anzi; e tuttavia la scelta che di necessità ha optato per queste ha determinato un sistema scuola per cui, oggi, sono necessarie, oltre all’insegnante e/o il docente curricolare, anche il docente sul sostegno didattico, più la figura esperta in una determinata area tecnologica afferente il tipo di disabilità dell’alunno/studente; questi, per la Legge 104/92, è definito assistente alla comunicazione e per l’autonomia, che lo stesso Paschetta ha definito “funzione”.
Ricordiamo a tal proposito cosa si scrive all’articolo 13 della legge 104: «Comma 1: L’integrazione scolastica della persona handicappata nelle sezioni e nelle classi comuni delle scuole di ogni ordine e grado e nelle università si realizza, fermo restando quanto previsto dalle leggi 11 maggio 1976, n. 360, e 4 agosto 1977, n. 517, e successive modificazioni, anche attraverso: […] Comma 3: Nelle scuole di ogni ordine e grado, fermo restando, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, e successive modificazioni, l’obbligo per gli enti locali di fornire l’assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con handicap fisici o sensoriali, sono garantite attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti specializzati».
Successivamente Paschetta fa riferimento alla norma che permette alle persone handicappate di seguire gli studi anche nel secondo ciclo (Sentenza della Corte Costituzionale 215/87), cui non è seguita di fatto una regolamentazione giuridica efficace dal punto di vista della didattica e dell’educazione (ho usato appositamente il termine “handicappate” perché non dimentichiamo che la Legge 104 ancora oggi segna fortemente il lessico, non tanto quello ordinario, quanto quello scritto dalla normativa vigente in materia di certificazioni della disabilità e di documenti scolastici).
Torno dunque alla “mozione d’ordine”: dobbiamo indirizzare l’azione politica affinché comprenda il bisogno reale e concreto degli alunni/studenti che vivono la condizione di cecità assoluta, parziale e/o con minorazioni aggiuntive, e decida di legiferare in modo coerente e nel rispetto della dignità della persona, definendo un percorso formativo atto a istituire figure specifiche e non generiche, con compiti educativi attinenti al tipo di condizione di disabilità in cui si trovano i discenti.
Questa non è un operazione difficile, semmai comporta il fatto che non si debba dare per scontato il dettato della normativa attuale la quale – come già più volte ribadito e in circostanze differenti – continua a perpetrare atteggiamenti discriminatori che vedono il disimpegno di dirigenti scolastici, insegnanti, docenti curricolari e per il sostegno e anche degli assistenti alla comunicazione nei confronti degli alunni/studenti.
Il Ministero è chiamato ad intervenire in modo forte, responsabile, sulla diatriba che vede al centro del dibattito sull’integrazione e l’inclusione scolastiche gli stessi assistenti alla comunicazione e per l’autonomia, previsti dall’articolo 13, comma 3 della Legge 104/92.
Noi oggi non siamo travolti dalle «diverse proposte espresse negli articoli sopra citati», ritenendo «non più rinviabile una riflessione pedagogica mirata a definire i “modelli operativi di inclusione”», come scrive Paschetta, ma dall’insistente quanto mai impositiva direttrice ministeriale, secondo cui è sufficiente ripensare i percorsi formativi, senza collocare gli stessi in una cornice giuridica che ne preveda l’istituzione e la stessa certificazione.
In questi giorni, presso il Ministero, abbiamo allo studio alcuni profili per queste professionalità che dovranno affiancare alunni e studenti in condizioni di disabilità, che oltre a prevedere percorsi formativi davvero impegnativi – per non dire oltre le aspettative, considerati i titoli in ingresso che dovranno possedere i candidati – prevedono in uscita titoli del tipo “Assistente alla Comunicazione e all’Autonomia per Ciechi e Non Udenti”.
L’Università ha un ruolo preponderante ai fini dell’istruzione e dell’educazione dei nostri ragazzi, giacché in tal senso non possiamo cedere terreno a Enti e/o Cooperative territoriali privi di quelle competenze specifiche in materia di Tiflodidattica, Tifloinformatica e quant’altro.
Con Luciano Paschetta condivido pienamente l’idea secondo cui il docente sul sostegno didattico non possa essere lo stesso in ogni ciclo scolastico e/o ordine di scuola, aggiungo anzi che bene sarebbe cominciare a convincersi che il sostegno didattico deve mirare a far si che quando l’alunno diviene studente, passando dunque dal primo al secondo ciclo, abbia acquisito i parametri propri delle didattiche disciplinari, e liberandosi pertanto di questi, possa fare riferimento alla figura dell’Educatore Tiflologico per ragioni didattiche legate all’acquisizione di nuove conoscenze in campo tecnologico, informatico e dell’orientamento e autonomia.
E se per l’abilitazione all’insegnamento per la scuola secondaria stiamo cercando di introdurre 60 Crediti Formativi Universitari come per il primo ciclo, assegnando una preparazione maggiormente approfondita sui temi legati all’integrazione e all’inclusione scolastiche, per la figura dell’assistente ancora navighiamo tragicamente a vista.
A maggior ragione non possiamo assegnare un compito così importante, come quello dell’integrazione scolastica, a quello che definiamo “funzione”, semmai a un professionista che affianchi i docenti, compresi quelli sul sostegno didattico, con il titolo più appropriato, come quello dell’Educatore Tiflologico.