Pensavo di essere la “solita esagerata” nel notare l’infelice intervento di Rosita Celentano, conduttrice e attrice, durante la trasmissione RAI Domenica In dello scorso 3 febbraio. Per fortuna, invece, c’è stato un boato sul web che ha letteralmente travolto Mamma RAI.
Tweet e post si sono infatti concentrati sul contenitore domenicale affidato a Mara Venier, appena Rosita ha usato la frase «Sembravamo quattro autistici», per giustificare le gaffe e l’impreparazione che avevano caratterizzato i presentatori del 39° Festival di Sanremo, da lei condotto assieme ad altri tre “figli d’arte” nel 1989. Di conseguenza, grazie ai social, sono subito arrivate le sue scuse in diretta.
E questa è la bella notizia. C’è, però, anche una brutta notizia, in questa partecipazione dal basso verso Viale Mazzini e sta proprio nel modo in cui Rosita ha chiesto scusa, che nessuno, però, ha sottolineato. La figlia dell’Adriano nazionale, sbalordita da tanto clamore e imbarazzata per l’accaduto, ha detto: «Sembravamo quattro autistici è un modo di dire, non vuole essere offensivo».
Ecco, è stata proprio la sua scusa a raggelarmi. Perché? Perché rispecchia molti italiani che usano termini legati alla disabilità per sottolineare qualcosa che, secondo loro, non va. Ultimamente, ad esempio, ho notato che si usa sempre più spesso la frase «oh, ma che sei handicappato?», quando qualcuno non capisce o non riesce a fare qualcosa. La usano i giovani e gli adulti. Sì, anche quegli adulti (insegnanti, allenatori ecc.) che dovrebbero educare le nuove generazioni verso gli altri.
Certo, è vero, la maggior parte delle volte ho osservato anche l’assenza di cattiveria nel farlo. È però proprio questa mancanza di volontà che vorrei combattere. Non può e non deve diventare “normale” questo parallelismo, perché c’è una profonda relazione tra il nostro linguaggio e la percezione che abbiamo del mondo.
Nel tran tran quotidiano ci imbattiamo in oggetti, suoni, odori ecc. Li identifichiamo attraverso le parole (scritte, lette, scolpite, ascoltate o mimate, a seconda delle esigenze personali) e, con esse, li controlliamo. Ognuno, a modo suo, usa il linguaggio per distinguere persone e oggetti attraverso somiglianze o connessioni mentali che non sono direttamente connesse soltanto ai nostri sensi. Ecco, allora, che diventa importante sottolineare quanto il nostro linguaggio rispecchia il nostro pensiero.
Credo fortemente che i pregiudizi si possono combattere con la conoscenza. Per questo, durante i miei incontri pubblici, cerco di far conoscere com’è nata la parola handicap. Essa deriva da una regola dell’ippica: Hand in cap, cioè “Mano nel cappello”. In pratica, il fantino con il cavallo più giovane e veloce si attaccava addosso dei pesi e teneva una mano sulla testa durante la gara. Lo scopo era quello di gareggiare ad armi pari. Così facendo, infatti, aveva uno svantaggio rispetto agli altri che, invece, potevano condurre il cavallo usufruendo di due briglie anziché di una. In questo modo, gareggiavano tutti partendo dallo stesso livello.
Questa è la società che vuole davvero crescere, cara Rosita, facendo giocare tutti alla pari e divertendosi a vedere chi vince davvero, senza strade preferenziali. Bisognerebbe dedicare un talk-show anche a questo tema, mi auguro che Mara Venier voglia raccogliere il mio invito.