Non c’è dubbio che la Legge 112/16 (Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare), pur con alcuni limiti riguardanti l’ambiguità non risolta tra approccio sociosanitario e/o socioassistenziale, tra LEP e LEA [Livelli Essenziali delle Prestazioni e Livelli Essenziali di Assistenza, N.d.R.], abbia tracciato un nuovo percorso per affrontare il tema del “Dopo di Noi”, tema fonte di tante preoccupazioni per molte famiglie.
La Legge ha puntato molto su azioni propedeutiche di facilitazione al distacco dalla famiglia e ha sollecitato forme di partecipazione economica per la soluzione del problema. Si tratta, a mio parere, di forme contributive private che possono facilmente essere utilizzate per il reperimento di strutture e per alcune forme di sostegno economico in singole particolari esperienze, mentre è palesemente risaputo che occorrano risorse alquanto consistenti, quando si debbano affrontare gestioni di situazioni ad alta intensità assistenziale di persone con disabilità complessa e prive del sostegno familiare, qualsiasi sia la tipologia di residenzialità che venga adottata.
La Legge ha istituito inoltre il Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare. In realtà un atto quasi simbolico, che data la vastità del problema, richiederebbe uno stanziamento ben più consistente e una forte partecipazione delle Regioni e degli Enti Locali (si pensi che per gli anni 2016-2017 alla Regione Lazio sono stati assegnati 9 milioni di euro, mentre nella sola Amministrazione di Roma Capitale vengono attualmente spesi oltre 15 milioni di euro per la sua rete di case famiglia!).
La Legge ha comunque suscitato alte aspettative tra le famiglie e le Amministrazioni Locali, in attuazione di precise direttive del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (Decreto Ministeriale del 23 novembre 2016), hanno dovuto adottare (pena la rinuncia alle risorse del Fondo) i conseguenti provvedimenti attuativi, con inaspettate complicazioni che involontariamente hanno creato diverse delusioni nelle famiglie.
Nel Lazio, oltre alla Legge e al Decreto Attuativo del Ministro, sono stati emanati numerosi altri atti amministrativi, senza poi contare, a cascata, gli atti a loro volta emanati dai Comuni.
Comprendere, attuare, trasferire, elaborare ha prodotto rallentamenti, quesiti e delusioni, nonché iniziative e tentazioni di richiesta di progetti sulla linea del “fai da te” che sinceramente hanno suscitato altre incertezze e perplessità.
Ovviamente ci auguriamo che tale situazione non si debba verificare ogni anno e ad ogni ripartizione delle risorse del Fondo! Ecco perché sarebbe molto interessante che ogni Regione si attivasse per elaborare, con ampia partecipazione, una direttiva progettuale unica di tutto ciò che attiene al “Dopo di Noi”. Un piano regionale che, a seguito di una buona analisi quantitativa e qualitativa della domanda, indicasse percorsi attuativi certi e semplificati, chiari e determinati con l’indicazione di proprie risorse, aggiuntive a quelle dello Stato e alle diverse forme di partecipazione economica di Enti Pubblici, organi privati e singoli cittadini, tutte risorse che annualmente verrebbero impegnate per i diversi progetti.
Questo, forse, potrebbe essere un modo per far risparmiare a tutti la fatica di quelle macchinose procedure che finora hanno solo complicato l’attuazione della Legge 112/16 – il famoso “giro dell’oca dell’assistenza”!) e dare finalmente una prospettiva certa al “Dopo di Noi”. Quanto segue vuole essere un piccolo contributo a tutto questo.
Quali valori a sostegno di ogni processo
Uno dei rilevanti pregi della Legge 112/16 è quello di avere energicamente fatto proprio il cambiamento di paradigma nell’approccio alla disabilità, seguendo il dettato della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (per inciso: che fine hanno fatto tutte le Proposte Programmatiche e di Azione per rendere attuabili e concreti i princìpi e i valori della Convenzione ONU, contenuti nel Secondo Programma di Azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, adottato con il Decreto del Presidente della Repubblica-DPR del 12 ottobre 2017?).
Si tratta di un decisivo passaggio dalla logica dei bisogni alla logica dei diritti nella progettazione degli interventi per le persone con disabilità.
Sappiamo molto bene come la logica dei bisogni – gradita e sostenuta dalle professioni, soprattutto sanitarie, poiché perfettamente in sintonia con il loro approccio specialistico e settoriale – oltre a generare relazioni asimmetriche tra servizi e professionisti da una parte e persone “bisognose” di aiuto dall’altra, vale a dire tra chi è forte e presta aiuto e chi è debole e riceve aiuto, condiziona la costruzione del nostro welfare, producendo un’organizzazione tutta basata su filiere tecnico/amministrative, generalmente disposte in parallelo, non comunicanti tra loro, quasi sempre autoreferenziali e necessitanti, per funzionare, di precostituire contenitori (detti servizi) diversificati secondo categorie di bisogno – appunto! – e stati di gravità.
Tutto questo ha portato non solo alla classica divisione tra sociale e sanitario, ma anche alla separazione con il sistema educativo e scolastico, con i processi di inclusione lavorativa, e financo con tutte le diverse provvidenze economiche, diventate ormai variabili indipendenti e intoccabili.
In questo contesto, alle persone non resta altro, pena l’esclusione, di adeguarsi al contenitore al momento disponibile per poter soddisfare i propri “bisogni”, seguendo la tendenza all’utilizzo di casacche “multitaglia” piuttosto che vestiti tagliati su misura.
Ora la logica dei diritti della Convenzione ONU, ripresa dalla Legge 112/16, ribalta prepotentemente tutto questo e afferma decisamente che ogni progettazione deve basarsi su questi principi irrinunciabili:
° la centralità della persona nell’esercizio pieno del proprio diritto di cittadinanza (Costituzione Italiana, articoli 2, 3 , 30 e 32; Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, articoli 24 e 26; Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, articoli 3 e 19, comma 1 a);
° il diritto di scelta che la persona con disabilità deve esercitare su ogni proposta di servizio o progetto che la riguarda, garantendo anche alle persone con disabilità intellettiva ogni accorgimento per facilitare la condivisione delle proposte;
° la prospettiva inclusiva per garantire nuove opportunità di autorealizzazione, in contesti di normalità relazionale e affettiva di tempo libero, di sport, di vita sociale e per il “Dopo di Noi”, per poter scegliere dove, come e con chi vivere (articolo 19 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità).
Sappiamo molto bene che quando parliamo di diritti – e in particolare di quei diritti che sono alla base del vivere (il diritto all’istruzione – alla formazione – al lavoro – il diritto all’abitare – il diritto alla salute – il diritto all’inclusione per un positivo ruolo sociale – il diritto alla vita adulta ecc.), intendiamo riferirci a quei diritti che tutti i cittadini hanno, ma che necessitano di un lavoro promozionale e di un sostegno attivo di “mediatori”, per garantirne il godimento da parte dei cittadini stessi, e, soprattutto, da parte dei cittadini che “fanno fatica a tenere il passo”!
Ecco perché sono stati inventati i servizi sanitari, sociosanitari e sociali. La loro mission è appunto quella di sostenere adeguatamente i cittadini nel rapporto con il sistema delle opportunità offerte dal welfare e la possibilità di poterne godere a pieno.
Questo rapporto, però, può diventare un problema quando il sistema dei servizi – come dicevamo pocanzi – raggiunge una diversa strutturazione, adottando una diversa logica e organizzandosi per filiere tecnico/amministrative decisamente a servizio delle necessità professionali degli operatori, più che dei cittadini. Purtroppo questo è ciò che è avvenuto nella generalità dell’attuale sistema dei servizi territoriali e, di conseguenza, si è prodotta quella rottura della mission e del mandato istituzionale, che rende oltremodo difficile per i cittadini il godimento dei propri diritti sociali e, alla fin fine, la possibilità di conseguire un proprio bene-essere.
Allora appare urgente domandarsi: può esserci ancora la possibilità di abbandonare l’attuale sistema organizzativo dei servizi e, approfittando di questa occasione d’oro di attuazione della Legge 112/16, iniziare con coraggio un processo di cambiamento nell’organizzazione dei servizi, fondato su quei princìpi testé ricordati e fare dei servizi finalmente dei “veri mediatori” al servizio dell’esigibilità dei diritti delle persone con disabilità e non solo?
E se non ora, quando? Quando magari l’attuale tendenza al ridimensionamento del nostro welfare ridurrà servizi e interventi e renderà precario o volatilizzato il posto di lavoro di tanti operatori?
Forse non sarebbe fuori luogo avviare da subito un’attenta riflessione per modificare quanto di complicato e confuso sta accadendo e magari farsi venire la voglia di allargare il proprio orizzonte partecipativo e avviarsi, finalmente, a costruire servizi basati su una visione strategica ed organica fondata sui diritti delle persone e, quindi, anche delle persone con disabilità.
Un percorso unitario, certo, rassicurante e condiviso per il “Dopo di Noi”
Tornando sul nostro sentiero per arrivare alla costruzione di un percorso unitario e certo del “Dopo di Noi”, vorrei proporre delle soluzioni, riferendomi in particolare alla situazione della mia Regione, il Lazio.
Questo è un momento particolarmente positivo per la Regione Lazio poiché, finalmente, ha saputo darsi – anche se per ora ancora a livello normativo – una propria e originale identità di welfare dei servizi. Per questo voglio sottolineare che ogni suggerimento qui riportato non ha la pretesa dell’originalità: vuole essere solo un promemoria per l’attuazione di ciò che la Regione Lazio ha magnificamente sancito con le sue leggi e, in primis, con la Legge Regionale 11/16, Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali della Regione Lazio.
Pertanto, al fine di togliere di mezzo perplessità, interpretazioni univoche, quesiti, delusioni e furberie da parte di chi si è attrezzato e riesce a imporre progetti, contando su inerzie, incapacità e accidie di qualche Amministrazione Locale, appare ormai del tutto indispensabile che la Regione Lazio inizi questo processo di cambiamento, partendo dalla messa in sintonia di tutta la produzione normativa riguardante la problematica del “Dopo di Noi”. Inizi, invitando alla partecipazione, un urgente lavoro di “rivisitazione” e armonizzazione di tutte le attuali disposizioni di riferimento (nazionali e regionali) per produrre una direttiva progettuale condivisa, unitaria e chiaramente percorribile (e magari, come ha già fatto la Regione Toscana, produrre, subito dopo, quella visione strategica e organica sulla disabilità di cui parlavo):
° Legge Regionale del Lazio 3 marzo 2003, n. 4: Norme in materia di autorizzazione alla realizzazione di strutture e all’esercizio di attività sanitarie e sociosanitarie, di accreditamento istituzionale e di accordi contrattuali.
° Legge Regionale del Lazio 12 dicembre 2003, n. 41: Norme in materia di autorizzazione all’apertura ed al funzionamento di strutture che prestano servizi socio-assistenziali.
° Delibera di Giunta Regionale del Lazio del 23 dicembre 2004, n. 1305: Autorizzazione all’apertura ed al funzionamento delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale che prestano servizi socio- assistenziali. Requisiti strutturali e organizzativi integrativi rispetto ai requisiti previsti dall’articolo 11 della L.R. n. 41/2003”(e successive modificazioni e aggiornamenti).
° Legge Regionale del Lazio 10 agosto 2016, n. 11: Sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali della Regione Lazio.
° Legge Nazionale 22 giugno 2016, n. 112: Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare.
° Decreto Ministeriale del 23 novembre 2016: Requisiti per l’accesso alle misure di assistenza, cura e protezione a carico del Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, nonché ripartizione alle Regioni delle risorse per l’anno 2016”.
° Delibera di Giunta Regionale del Lazio del 25 luglio 2017, n. 454: Linee guida operative regionali per le finalità della legge n.112 del 22 giugno 2016 “Disposizioni in materia di assistenza delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare” e del Decreto Interministeriale del 23 novembre 2016 di attuazione.
° Delibera di Giunta Regionale del Lazio del 2 marzo 2018, n. 149: Legge regionale 10 agosto 2016 n. 11, capo VII Disposizioni per l’integrazione sociosanitaria della sua legge n. 11/16, Attuazione dell’articolo 51, commi 1 – 7, art. 52, comma 2, lettera c) e art. 53, commi 1 e 2.
Primo esempio: definizione del percorso di accesso e presa in carico
– Il percorso di accesso a servizi e programmi deve avvenire attraverso il Punto Unico di Accesso (PUA) (Delibera di Giunta Regionale del Lazio n. 454/17 e Legge Regionale 11/16, articolo 53: «Il piano personalizzato, in presenza di bisogni complessi della persona che richiedono l’intervento di diversi servizi ed operatori sociali, sanitari e socio educativi, è predisposto da apposita unità valutativa multidisciplinare, attivata dal PUA, d’intesa con l’assistito ed eventualmente con i suoi familiari, in base ad una valutazione multidimensionale della situazione della persona, tenendo conto della natura del bisogno, della complessità, dell’intensità e della durata dell’intervento assistenziale».
– Segue la valutazione da parte della Unità Valutativa Multidimensionale (UVM), attuata da équipe multidisciplinare (ICF bio/psico/sociale [l’ICF è la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.]) di distretto. L’UVM assume la responsabilità della presa in carico, della definizione del progetto di vita personalizzato, del monitoraggio e della valutazione in itinere.
– Le UVM, nel definire il progetto di vita personalizzato, assicurano:
>>> dopo attenta ricognizione del quadro dei servizi, percorsi, azioni e risorse disponibili e/o attivabili ritenuti necessari, la definizione del progetto personalizzato, che non dovrà essere un semplice elenco degli interventi e prestazioni da erogare, ma un vero programma di miglioramento della qualità della vita della persona con disabilità;
>>> la massima partecipazione alla redazione del progetto della persona con disabilità e della sua famiglia e di eventuali portatori di interesse (stakeholder);
>>> la definizione del budget di progetto (per il Lazio. Budget di salute, come da Legge Regionale 11/16, articolo 53, comma 5), indicando non solo le risorse economiche e professionali pubbliche, ma anche le risorse messe a disposizione dalle famiglie o da altri soggetti del terzo settore;
>>> l’assegnazione del Case Manager (come da Decreto Ministeriale del 23 novembre 2016, articolo 2, comma 4), quale responsabile dell’attuazione del progetto personalizzato e della costante verifica dell’adeguatezza degli interventi.
Il Case Manager assicura il monitoraggio del progetto attraverso incontri periodici, con la persona interessata e/o con i suoi familiari (o con chi ne tutela gli interessi), nonché con i responsabili dei programmi di indipendenza abitativa.
Sempre il Case Manager – in stretto lavoro congiunto con l’Unità Valutativa Multidimensionale, titolare della presa in carico della persona – concorda i momenti di verifica periodica e di eventuale revisione del progetto.
Rispetto poi alla definizione delle priorità di accesso delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, esse sono, secondo la Legge 112/16:
a) persone con disabilità grave mancanti di entrambi i genitori, del tutto prive di risorse economiche reddituali e patrimoniali, che non siano i trattamenti percepiti in ragione della condizione di disabilità;
b) persone con disabilità grave i cui genitori, per ragioni connesse in particolare all’età, ovvero alla propria situazione di disabilità, non sono più nella condizione di continuare a garantire loro nel futuro prossimo il sostegno genitoriale necessario ad una vita dignitosa;
c) persone con disabilità grave inserite in strutture residenziali dalle caratteristiche molto lontane da quelle che riproducono le condizioni abitative e relazionali della casa familiare, come individuate all’articolo 3, comma 4, del Decreto Ministeriale del 23 novembre 2016;
d) per le persone con disabilità grave già inserite in un percorso di residenzialità extrafamiliare, particolare attenzione è riservata alla rivalutazione delle caratteristiche di tali residenze, ai sensi dell’articolo 3, comma 3 del Decreto Ministeriale del 23 novembre 2016.
Piccola nota: pur condividendo la scelta della Legge 112/16 di dare priorità «alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare», occorre assolutamente non dimenticare, nella progettazione unitaria, soluzioni e risorse per le persone con disabilità “lieve” (soprattutto se intellettiva), che spesso vengono lasciate a se stesse e/o alle possibilità delle loro famiglie, dovendo sopperire a quelle priorità selettive dettate dalle emergenze delle situazioni di disabilità complessa.
Per non attendere cinicamente di doversi attivare per queste persone quando, a seguito di regressioni e involuzioni, le loro situazioni dovessero entrate nella classica categoria di “persone con disabilità grave”, occorre anche per loro attuare progetti di vita che, oltre a prevenire tali pericoli, garantirebbero pure a loro il diritto ad una vita adulta e indipendente, legittima aspirazione di tutte le persone (e forse risparmiando in tal modo anche preziose risorse pubbliche).
Secondo esempio: come rendere attuabile un “Durante Noi” per un buon “Dopo di Noi”
A mio avviso potrebbero essere utili i seguenti passaggi fortemente legati al progetto di vita di ogni persona con disabilità.
1. Innanzitutto deve essere un Servizio Pubblico a esercitare la presa in carico della persona con disabilità. Una presa in carico tempestiva, il più precocemente possibile e per tutto l’arco dell’esistenza, per garantire percorsi educativi/abilitativi di rinforzo e sviluppo dell’autonomia, dell’autosufficienza, dell’affettività e della capacità di assumere un futuro ruolo sociale.
Si tratta di un percorso operativo in divenire (che mi piace chiamare “progetto di vita personalizzato”) che inizia con un affiancamento e sostegno da subito alla famiglia, un accompagnamento nell’inclusione scolastica e nell’uscita programmata dall’obbligo scolastico, per possibili studi superiori; un accompagnamento nell’inclusione lavorativa, con opportunità molto ampie, articolate e diversificate, poiché il lavoro – in tutte le sue forme e modalità attuative – è uno snodo cruciale nella vita di tutti.
2. Con l’avvicinarsi dell’età adulta, iniziare a programmare i diversi sostegni per un’uscita morbida e consapevole dalla propria famiglia. A tale scopo, ad esempio, a Roma si dovrebbe utilizzare il Servizio per l’Autonomia e l’Inclusione Sociale della Persona con Disabilità (SAISH), servizio ad ampie possibilità progettuali, finalizzate ad assecondare un vero cambiamento esistenziale, sia con modalità di gestione diretta (attraverso programmi attuati da soggetti accreditati e scelti dalla persona), sia con modalità indiretta con gestione diretta da parte del cittadino/utente.
Purtroppo per molti, amministratori e cittadini, questo servizio – attivo da oltre venticinque anni – viene ancora riduttivamente considerato un servizio di assistenza per non autosufficienza e nel solo domicilio.
3. Programmare progetti di sostegno all’abitare che si realizzino con iniziative programmate che vanno dal garantire la permanenza presso il proprio domicilio; al garantire soluzioni abitative e di supporto alla singola persona, alternative al proprio domicilio; all’ampliamento della progettazione dell’abitare, come le attuali realizzazioni sorte a seguito della normativa regionale vigente (ad esempio case famiglia strettamente legate alla tipologia di vita familiare, in case di civile abitazione con specifica procedura di autorizzazione – accreditamento – convenzione), da arricchire con nuove opportunità realizzative, attraverso una buona progettualità regionale e con il sostegno di una buona valutazione ex post sulla qualità della vita.
Alcune sperimentazioni innovative potrebbero essere, ad esempio:
° affidamenti familiari singoli, basati sulla disponibilità di una famiglia volontaria (scelta a seguito di adeguata formazione);
° comunità familiari che ospitino fino a un massimo di quattro persone, rispondendo agli stessi bisogni individuati per le case di tipo familiare, differenziandosi da esse, poiché l’asse educativo ruota attorno alla presenza stabile di una coppia;
° strutture abitative analoghe a residence, per dare sostegno a genitori anziani con figli disabili e mantenere unito, se richiesto, il nucleo familiare. Potrebbero essere considerate strutture di housing sociale, che accolgono singoli o nuclei, secondo il target definito dal loro regolamento e dagli eventuali accordi pubblico/privato;
° convivenze assistite: piccoli-medi nuclei di convivenza autogestita o a bassa presenza assistenziale di operatori, facenti capo a un’équipe territoriale socio-sanitaria di riferimento. Le risorse si possono ricercare con la messa in comune di quelle personali, sia economiche, sia di ore di assistenza personale o domiciliare;
° utilizzo sistematico e il più ampio possibile di persone del volontariato, nell’ottica di promuovere relazioni positive allargate, ma anche di provvedere all’alleggerimento dei costi.
4. In una rivisitazione così importante del “Dopo di Noi” occorre infine mettere in campo un deciso contrasto all’isolamento e un potenziamento delle azioni di deistituzionalizzazione. Il Secondo Programma di Azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, adottato – come detto – con il DPR del 12 ottobre 2017, definisce l’istituzionalizzazione come «imposizione – esplicita o implicita – a trascorrere la propria quotidianità (anche in parte) in luoghi nei quali non è consentito l’esercizio della scelta di dove, come o con chi vivere» (Capitolo 4, Linea di Intervento 2, Politiche, servizi e modelli organizzativi per la vita indipendente e l’inclusione nella Società).
A tal proposito il Programma di Azione stesso sostiene di «adottare interventi sinergici di potenziamento e qualificazione della rete dei servizi, basati su politiche inclusive a favore delle persone e delle loro famiglie; di assumere a riferimento per le future convenzioni o accreditamenti istituzionali norme coerenti con la Convenzione ONU, vietando l’accreditamento istituzionale e, conseguentemente, qualsivoglia finanziamento diretto o indiretto a strutture potenzialmente segreganti».
Credo, che in riferimento a ciò, sia arrivato il momento di svolgere un attento esame sulle situazioni delle persone presenti negli attuali centri/istituti accreditati ex articolo 26 della Legge 833/78 per l’assistenza riabilitativa in forma residenziale, e verificare con decisione se tali situazioni siano in perfetta sintonia con il dettato della Legge 112/16, con i princìpi sanciti dalla Convenzione ONU e dal richiamato Secondo Programma di Azione. Qualora si riscontrasse l’assenza di tale sintonia, si diano direttive vincolanti per l’attuazione di un programma di graduale riorganizzazione, salvaguardando i diritti delle persone e non gli interessi dei gestori.
5. Resta infine un ultimo tassello: promuovere un nuovo modello di governance che assicuri definitivamente alle Pubbliche Amministrazioni l’esclusiva funzione di programmazione e indirizzo, di monitoraggio, di valutazione e verifica degli esiti di ogni programma e servizio; che promuova il passaggio dal vecchio modello di welfare state al welfare di prossimità e generativo; che riconosca l’essere “con-primari” alle famiglie e ai diretti fruitori, al Terzo Settore, e alle organizzazioni informali della comunità locali e permetta il diritto/dovere di essere informati e coinvolti nella consultazione, nella co-progettazione, nella co-produzione responsabile e nella valutazione condivisa.
È questo il modello di governance in cui il “privato” non viene più considerato un soggetto cui affidare l’esecutività di progetti e servizi (a volte con sistemi dubbi di delega), ma è un partner che collabora, investendo anche risorse proprie, alla costruzione e allo sviluppo di sistemi attivi di protezione sociale, a partire dai progetti personalizzati.
Anche il Terzo Settore, però, deve fare la sua parte, orientando la propria operatività nel promuovere e attuare la logica dei diritti secondo la Convenzione ONU, allargando il proprio campo d’azione e integrando i servizi residenziali, con iniziative territoriali volte a promuovere autonomia e inclusione sociale (dal lavoro all’inclusione sociale, alle attività sportive, ricreative, ecc.), avviare attività diurne laboratoriali, aperte alla comunità locale, alle altre persone con o senza disabilità. Si tratta in sostanza di essere attenti alla vita che cambia, per non cadere nel pericolo di uno scivolamento silenzioso verso un assistenzialismo passivo.
L’altro polo di attenzione riguarda la tutela e la garanzia di bene-essere dei propri operatori, soprattutto se impegnati solo in servizi residenziali. Un’espansione e diversificazione creativa della attività ridurrebbe di molto la stanca ripetitività e il pericolo di burnout, rinforzerebbe la loro motivazione, la loro creatività e il senso del loro lavoro e quindi l’essere sempre più facilitatori del bene-essere degli altri.
E infine, non si può continuare a far evaporare nel dimenticatoio l’enorme opportunità di riflessione ed elaborazione scientifica e culturale che viene dalle esperienze finora attuate e vissute, sia in positivo che in momenti di criticità e stanchezza. Sono molte le esperienze che vengono condotte con intelligenza, competenza e partecipazione: perché non raccoglierle?
Purtroppo molto spesso l’operatività a volte convulsa non facilita la costruzione di un deposito culturale e prassico di esperienze e soluzioni, da cui attingere in caso di necessità. E penso, in questo momento, alle diverse e numerose esperienze del “Dopo di Noi”.
A Roma, ad esempio, questo “magazzino/deposito” di pensiero ed azione non l’ho trovato. Eppure è attivo da oltre vent’anni – anticipando fin dal 1995 la Legge 112/16 – un Progetto Residenzialità con più di quarantacinque case/famiglia che ha interessato oltre 350 persone, famiglie e servizi territoriali. Ebbene, questa esperienza attende di essere trasformata in patrimonio condiviso, di diventare forza propositiva e condivisa dalle famiglie, dagli operatori pubblici e del terzo settore per avere una visione unitaria e una spinta evolutiva di nuove proposte del “Dopo di Noi”, adeguate ad accompagnare giorno per giorno l’esistenza delle persone.
Terzo esempio: le azioni di sistema dell’Istituzione Regione possono cambiare il welfare dei servizi
Ho ricordato che i diritti sociali sono esigibili se ci sono capaci mediatori che nel nostro caso sono i servizi. Tutta la narrazione svolta finora ci porta a dover prendere in considerazione che ogni progettualità ha bisogno di solide basi strutturali ed operative. Non c’è dubbio che per competenza costituzionale debba essere la Regione a indicare quale processo intenda promuovere, per la costruzione di un progetto regionale unitario sul “Dopo di Noi”.
Come dicevo all’inizio, c’è già una produzione di specifica normativa regionale: si tratta di rivisitarla e di metterla in sintonia con la Convenzione ONU e con la Legge 112/16.
Per il Lazio, partendo dalla Legge Regionale 11/16, si possono certamente avviare quei cambiamenti strutturali del welfare dei servizi, assolutamente necessari per sostenere e gestire quel progetto unitario sul “Dopo di Noi”.
Sono due le azioni necessarie per un adeguamento della macchina operativa del welfare regionale e le troviamo definite, in particolare, in altrettanti articoli della Legge Regionale 11/16.
Uno è l’articolo 51, Integrazione socio-sanitaria, il quale, dopo avere richiamato il concetto di prestazioni sociosanitarie del Decreto Legislativo 229/99 (articolo 3 septies), stabilisce che per «garantire il coordinamento e l’integrazione tra le prestazioni di cui al comma 2 [Prestazioni sanitarie a rilevanza sociale… Prestazioni sociali a rilevanza sanitaria… Prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria… N.d.A.], le aziende sanitarie locali e i comuni stipulano una convenzione o accordo di programma secondo uno schema tipo approvato con la deliberazione della Giunta regionale».
Questo articolo, quindi – che potremmo definire strutturale e di governance – determina natura e modalità di integrazione tra Comuni e Aziende Sanitarie, attraverso accordi formali per la promozione, la definizione e la gestione delle «prestazioni socio-sanitarie integrate».
L’altro è l’articolo 53, Presa in carico integrata della persona e budget di salute, che impone ai servizi l’attuazione di un preciso modello operativo. Questo articolo è speculare e complementare al precedente articolo 51, poiché alla proposta strutturale viene agganciato il sentiero concreto di una modalità operativa.
Gli strumenti normativi, quindi ci sono: è giunto allora il tempo di dichiarare esplicitamente e con programmi operativi se la Regione Lazio intenda attuare finalmente l’«integrazione sociosanitaria» di cui al Capo VII (Disposizioni per l’integrazione socio-sanitaria) della sua Legge 11/16, e rendere operativa la Direttiva emanata con la Delibera di Giunta regionale n. 149/18 (Legge regionale 10 agosto 2016 n. 11, capo VII Disposizioni per l’integrazione sociosanitaria della sua legge n. 11/16, Attuazione dell’articolo 51, commi 1 – 7, art. 52, comma 2, lettera c) e art. 53, commi 1 e 2).
Riorganizzazione dei servizi territoriali
Strettamente urgente e consequenziale all’attivazione dell’integrazione sociosanitaria, c’è la necessità di mettere mano concretamente alla riorganizzazione dei servizi territoriali, in particolare eliminando le diverse situazioni di forti carenze di professioni proprio nell’àmbito dei servizi sociosanitari integrati. Molti servizi, per tale motivo, sono di fatto impossibilitati a gestire correttamente il loro mandato istituzionale. È quindi prioritario definire tipologie e standard di personale dei diversi servizi territoriali, e colmare i vuoti evidenziati.
Queste priorità – se non adeguatamente affrontate – rendono alquanto difficoltosa la possibilità di operare secondo quella logica dei diritti e secondo quei princìpi irrinunciabili di cui alla Convenzione ONU: centralità della persona, il suo diritto di scelta, la prospettiva inclusiva in ogni azione.
Serve un coraggioso passaggio dal livello normativo a un preciso sistema operativo, che richiede anche una capacità di una manutenzione che generi una buona revisione di ruoli e di compiti di tutti gli attori professionali coinvolti. Diversamente diventa del tutto retorico continuare ad affermare la centralità della persona, se non si promuove una riorganizzazione dei servizi che possa veramente garantire il rispetto del diritto di fruizione dei servizi sanitari, sociosanitari e sociali in un sistema integrato e condiviso. Ma l’articolo 53 della Legge Regionale 11/16, come si diceva, questa possibilità di cambiamento nell’organizzazione e nel funzionamento del sistema dei servizi territoriali l’ha determinata, adottando il modello operativo definito budget di salute («La Regione, al fine di dare attuazione alle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui “determinanti sociali della salute” e alle relative raccomandazioni del 2009, adotta una metodologia di integrazione sociosanitaria basata su progetti personalizzati sostenuti da budget di salute, costituiti dall’insieme di risorse economiche, professionali e umane necessarie a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale del soggetto assistito»).
Sistema operativo budget di salute
Si tratta – come più volte ho scritto e ossessivamente ribadito – di un sistema operativo validato da esperienze internazionali e nazionali, che oltre ad essere perfettamente calzante nel risolvere quella necessità di cambiamento strutturale per un progetto unitario sul “Dopo di Noi”, favorisce la condivisione di una visione strategica e organica sulla disabilità.
Prima di tutto, il sistema operativo budget di salute esige come precondizione l’integrazione sociosanitaria. Contemporaneamente richiede la definizione di progetti di vita personalizzati basati sulla valutazione multidimensionale. Inoltre, promuove e attua il protagonismo dei cittadini/utenti, attraverso la co-costruzione dei singoli progetti personalizzati e la definizione di un vero e proprio contratto.
Il budget di salute non va confuso con i diversi voucher sanitari o sociali, ma è uno strumento organizzativo-gestionale che per la realizzazione dei progetti di vita personalizzati, utilizza l’insieme delle risorse economiche, professionali e umane, gli asset strutturali, il capitale sociale e relazionale della comunità locale, promuovendo contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire una migliore inclusione sociale della persona, il rimanere nel suo abituale contesto sociale, ricentrando l’intera rete dei servizi sociosanitari sul benessere sociale delle persone, piuttosto che sulla loro malattia, poiché si tratta di un modello che implementa azioni e strumenti non inerenti alla malattia e alle tecniche di cure specifiche, ma che promuove interventi ricostruttivi e di valorizzazione dei contesti ambientali sociali e relazionali. Esso attua il principio di sussidiarietà, affidando al livello più prossimo alla persona la realizzazione di interventi, promovendo il cambiamento e l’evoluzione di quel microcontesto sociale e culturale in cui vive la persona stessa, poiché quel contesto costituisce l’elemento determinante per un ragionevole suo bene-essere, nel contrastare e prevenire gli esiti invalidanti delle malattie e dell’abbandono e di alcuni metodi di cura (da Fabrizio Starace, Il Budget di Salute come strumento di promozione e sostegno dei progetti integrati nell’area sociosanitaria per la salute mentale, abstract della relazione al Convegno Dal supermercato delle prestazioni al Budget di salute. Ovvero da pazienti/assistiti a coproduttori del proprio bene-essere!, Roma, Campidoglio, 14 marzo 2013).
Una caratteristica importante del budget di salute è quella di evidenziare che i cambiamenti esistenziali delle persone (e quindi la tangibilità dei risultati), non si raggiungono con azioni monospecialistiche, ma con azioni cooperativistiche.
La valutazione dei risultati raggiunti (più che una descrizione illustrativa della situazione della persona) nell’esercizio della presa in carico, aiuta a riscontrare la persistenza di elementi/barriera nei confronti del bene-essere della persona, sia in senso generale che per particolari aspetti esistenziali. Spostando l’attenzione della valutazione (ciclicamente attuata) sui risultati e non sulla persona, emerge il fatto che la logica sottostante non sarà più quella dei bisogni – logica ancora oggi largamente usata poiché funzionale, come dicevo, al sistema organizzativo strutturato per attività monospecialistiche e monosettoriali -, ma sarà la logica dei diritti, che spinge a considerare la multidimensionalità della persona e la strutturazione del progetto personalizzato su quattro assi fondamentali: 1) apprendimento/espressività; 2) formazione/lavoro; 3) casa/habitat sociale; 4) affettività/socialità.
Questo approccio si chiama attenzione ai determinanti sociali di salute. Parte dalla consapevolezza che gli impedimenti esterni all’esercizio dei diritti all’apprendimento, alla formazione, all’affettività e socialità, al lavoro, all’abitazione siano essi i veri determinanti che trasformano una persona vulnerabile o a rischio in un “caso”: «Se le condizioni di salute di una persona, come tutti sanno, hanno a che fare con l’abitare, con l’avere una vita attiva, magari anche con il lavorare, con il contare su una rete di legami affettivi, familiari, amicali di sopporto, ecco che se queste sono le condizioni reali su cui si costruisce un benessere – o un “meglio essere” delle persone, questa è allora la materia di cui i servizi si devono occupare» (Ota De Leonardis, Da luoghi di cura alla cura dei luoghi. Il servizi sociali di fronte alla domanda di sicurezza, intervista a Ota De Leonardis a cura di Matteo Fiani, in «Animazione Sociale», Ottobre 2008, pp. 3-11, Gruppo Abele, Torino 2008).
Riconoscere i limiti di un approccio fondato su un prodotto sociosanitario rigido, derivato dal modello ospedaliero e che spesso si basa sulle caratteristiche dell’offerta disponibile, più che sulla ricerca di prestazioni flessibili, definite sulla base dei reali diritti di salute del cittadino/utente, è una delle possibili opportunità di cambiamento sollecitate dal budget di salute.
Bisogna comunque ricordare che il sistema operativo budget di salute è un sistema complesso che richiede un momento di formazione e di corretto approfondimento per avere da parte di tutti i soggetti coinvolti la giusta padronanza dei diversi passaggi operativi, oltre a necessitare di un cambiamento culturale e di approccio nei servizi alla persona.
In conclusione, purtroppo, una nota di tristezza
Parto da una decisione della Regione Lazio. Con la Delibera di Giunta Regionale n. 792 dell’11 dicembre 2018, la Regione ha inteso ritardare l’avvio dell’integrazione sociosanitaria nei diversi Distretti, e stabilito di «prorogare al 30 settembre 2020 il termine previsto dalla deliberazione della Giunta regionale del 2 marzo 2018, n. 149, per la stipula della convenzione tra distretti socio- sanitari e Aziende Sanitarie Locali per l’organizzazione e la gestione delle attività di integrazione sociosanitaria».
La Precedente più volte citata Delibera di Giunta n. 149/18 prevedeva altresì la stipula delle convenzioni entro il 31 dicembre 2018 e conteneva nell’interessante allegato le Linee guida finalizzate alla definizione del percorso di integrazione sociosanitaria nella Regione Lazio, con l’esplicitazione del contesto normativo, del modello di governance, del Punto Unico di Accesso alle prestazioni sociosanitarie, della valutazione multidimensionale e relativi strumenti, del piano di assistenza personalizzato.
Perché, dunque, è stato prorogato il termine del 31 dicembre 2018, indicato dalla Delibera 149/18? Me lo sono chiesto con rammarico. Perché a mio parere, non c’è stata alcuna sollecitazione da parte delle Istituzioni Pubbliche a far conoscere e attuare quella Deliberazione. Né si è visto alcun impegno in tal senso da parte delle diverse famiglie professionali (forse non proprio interessate a tale percorso integrativo per i noti motivi di resistenza ai cambiamenti di strutturazione dei servizi). Quello che però ha suscitato meraviglia e rammarico è stata la constatazione del totale silenzio delle Associazioni degli utenti, e del Terzo Settore che, invece avrebbero avuto tutto l’interesse – per le ricadute positive sui cittadini/utenti – a ché Istituzioni e Servizi avviassero da subito un diverso sistema organizzativo dei Servizi di Distretto, attraverso la stipula delle convenzioni per l’integrazione socosanitaria.
Mi appare molto difficile dover pensare che questa proroga esprima un raffreddamento (o peggio, un abbandono) del processo di cambiamento strutturale del welfare regionale, processo promosso e iniziato con la Legge Regionale 11/16. Sarebbe infatti molto triste se la Regione non facesse ogni possibile azione per onorare e fare onorare una Legge di cui essa stessa si è dotata, e ritardare, per quello che qui ci interessa, quel lavoro unitario per un diverso approccio alla disabilità e, in particolare, a un diverso “Dopo di Noi”.
Sollecitare le Istituzioni territoriali e i professionisti, che per mandato istituzionale devono garantire l’attuazione dell’integrazione sociosanitaria, significa che la Regione debba utilizzare ogni mezzo affinché si inizi da subito a lavorare per definire il percorso di integrazione sociosanitaria, dettato dalla Delibera di Giunta 149/18, e non permettere che si arrivi a ridosso del 30 settembre 2020 e dover constatare che nulla sia stato fatto in tal senso, con la necessità di un’ulteriore proroga.
Il progetto qui suggerito ha bisogno di un input forte della Regione e diverso da quello dilatorio della Delibera 792/18. Non penso che ci si voglia rassegnare a dover attendere altri lunghi anni per dare una riconoscibile ed esclusiva identità al nostro welfare regionale.
Da parte nostra, comunità sociale, serve allora rispolverare una parola difficile da pronunciare oggi: partecipazione. Per saper cogliere, infatti, il senso autentico della parola diritti, dobbiamo creare un gigantesco NOI – contrapposto (perché no!) all’individualismo imperante – che sappia motivare tutti a un lavoro di co-costruzione di quel nuovo assetto istituzionale necessario ad ogni nuovo progetto da realizzare insieme: con le istituzioni, con i servizi e con tutti gli attori possibili.
Un’azione che deve crescere e svilupparsi dal basso, attenta alla costruzione dell’identità plurale del NOI, poiché ogni situazione di bene-essere o di disagio non è più racchiudibile esclusivamente nelle condizioni individuali, ma si pone come risultato dell’interazione tra le diverse dimensioni e condizioni della persona con il suo contesto sociale e ambientale. Sono i contesti sociali di vita un riferimento sostanziale e imprescindibile per ogni possibilità di buona vita, e la presenza di buoni e bravi mediatori (i servizi) la rendono alquanto più facile.
Meditate gente, meditate!