Che bella donna, poverina! Mi capita spesso di ascoltare questa frase, mentre incrocio le persone per la strada. L’ultima volta, ieri. Ogni volta che succede, mi provoca un sorriso amaro. Amaro non perché mi ferisca, ma per il fatto che dimostri come la nostra cultura sia ancora incastrata tra mille cliché. La mia vera amarezza è questa.
Non sono da buttar via, ma non mi considero neanche così attraente da focalizzare tanta attenzione. Come mai, allora, si concentrano tanto su di me? Poi, poverina, perché?
Col tempo è arrivata la mia personale interpretazione a queste domande che giravano in testa da tanto. Magari sbaglierò, ma molti si meravigliano ancora quando una donna che, come me, usa la carrozzina per muoversi, dedica il suo tempo anche a migliorare il proprio aspetto esteriore, attraverso il modo di vestirsi, muoversi – per quel che posso! – e presentarsi. Insomma, che mi interessino abbigliamento, trucco, acconciature ecc.
Secondo me, questo atteggiamento rispecchia alcuni stereotipi errati e, purtroppo, ancora molto diffusi: di norma, una donna con disabilità non cura molto il suo look. D’altronde, perché dovrebbe? Non deve mica raggiungere successi professionali e personali. Relazioni amorose? Non ne parliamo proprio…
È vero che la moda sta iniziando a capire il mercato potenziale e a rappresentare la bellezza nelle sue diverse forme, etnie e disabilità. La percezione collettiva, però, è ancora quella del “fenomeno”. Attualmente, almeno nel nostro Paese, credo che siamo ancora agli esordi.
In Italia, ci sono sì molti concorsi di bellezza dedicati alle persone con disabilità – per lo più donne – e si parla molto di Adaptive Fashion, cioè quell’abbigliamento rivolto ad acquirenti con esigenze cosiddette “speciali” perché convivono con protesi, sedie a rotelle, sacchetti della colostomia, dispositivi per l’insulina ecc. Una modella fuori dai consueti canoni di bellezza, però, continua a destare tanta meraviglia e compassione nel grande pubblico.
No, non sto descrivendo il Medioevo. Per i più, sembra ancora strano che una donna con disabilità non voglia rinunciare a sentirsi desiderabile e affascinante.
Certo è che, a piccoli passi, si sta creando una rappresentazione inclusiva del corpo umano, grazie a défilé, magazine patinati e campagne pubblicitarie che propongono modelli e modelle lontani dalla bellezza convenzionale, perché caratterizzati da vitiligine, albinismo, taglie forti, colore della pelle, disabilità motorie, sindrome di Down e così via. Se tuttavia nel resto del mondo tali rivoluzioni estetiche stanno aprendo la strada anche ad altre riflessioni sulla vita reale di queste persone, in Italia il dibattito sembra ancora abbastanza spento se non su riviste specializzate.
Significativo è certamente il caso di Bebe Vio, che oltre ad essere campionessa paralimpica e portavoce dell’ottimismo nonostante le inevitabili difficoltà, con la sua oramai nota frase «La vita è una figata!», è conosciuta da tutti anche come ambasciatrice ufficiale di una nota maison di alta moda e come volto di varie campagne pubblicitarie.
Milioni di telespettatori, poi, hanno conosciuto Chiara Bordi perché è stata la prima ragazza con una protesi a partecipare alla finalissima del concorso di Miss Italia nel 2018.
Queste due giovani donne sono esempi da rispettare, se non per altro perché hanno attratto molto l’attenzione dei media e, di conseguenza, del grande pubblico, aprendo il discorso.
È anche importantissimo che si muovano i primi passi verso una moda più Disability Friendly [“su misura delle persone con disabilità”, N.d.R.] e che, com’è già successo, si organizzino eventi nei quali la passerella accolga contemporaneamente modelli con e senza disabilità.
Tutto questo, però, non basta. La vita di tutti i giorni è un’altra cosa. E nella vita di tutti i giorni si può parlare di inclusione a tutti gli effetti soltanto quando ciò che ha spezzato le convenzioni non fa più notizia.
Nel frattempo, continuo a sorridere ogni volta che, senza conoscere ciò che sono e quello che faccio, mi definiscono poverina. Tuttavia, per cambiare la percezione della disabilità, non escludo di potermi girare all’improvviso per chiedere: «E voi, miei cari, cosa avete realizzato nella vostra vita senza disabilità?».