Intervenendo nell’acceso dibattito seguito al recente provvedimento del Consiglio di Giustizia Amministrativa (CGA) della Sicilia che ha accolto l’appello con cui la famiglia di un ragazzo con disabilità ne aveva chiesto la ripetenza, ritenendo che fosse stato ammesso agli esami senza una corretta valutazione dei progressi realizzati, chi scrive condivide in linea di massima le opinioni espresse da Salvatore Nocera in un interessante articolo pubblicato su queste stesse pagine [“Non si deve promuovere per mandare via dalla classe!”, N.d.R.].
Infatti, premesso che il sottoscritto è sempre a favore del successo scolastico e formativo di tutti e di ciascun alunno, devo però rilevare che, spesso e volentieri, le promozioni in particolare degli alunni con disabilità sono dettate più da motivazioni pietistiche e paternalistiche che non da argomentazioni fondatamente pedagogiche e educative. Triste e naturale conseguenza di ciò è che, paradossalmente, si rischia di arrecare ancora più danno e di destabilizzare i nostri ragazzi, in quanto, pur di mandarli avanti “alla cieca” e ad ogni costo nelle classi o in cicli successivi, si finisce per privarli di quei pochi ambienti veramente “inclusivi” e capaci di favorire effettivamente il loro processo di autonomia e di crescita integrale.
E tuttavia non mi sento di esultare e di essere entusiasta per Sentenze come questa, che reputano di garantire il diritto all’inclusione attraverso il solo ricorso dei genitori alle aule dei Tribunali.
Tale “via giudiziaria” al sostegno, a parere di chi scrive, rappresenta certamente un’anomalia tutta italiana, che sta rischiando di farci perdere di vista lo spirito autentico della cultura dell’inclusione.
Malgrado infatti le evidenti criticità del nostro attuale sistema inclusivo, non sono i Giudici che possono e devono assicurare un reale e concreto processo di inclusione ai nostri alunni/studenti con disabilità o, per lo meno, la richiesta del loro intervento, in un Paese civile come il nostro, dovrebbe rappresentare soltanto un’extrema ratio, l’ultima spiaggia per i genitori delle persone con disabilità, per non fare naufragio.
Devo al contrario evidenziare che in Italia la frequentazione delle aule giudiziarie, da parte dei familiari dei ragazzi con disabilità, non è solo un’eccezione, ma sta tristemente diventando una regola, come confermato dai recenti dati ISTAT sull’inclusione, che sottolineano come il 9% dei genitori degli allievi con disabilità della scuola primaria e il 5% di quelli della scuola secondaria di primo grado siano stati costretti a presentare ricorso al proprio TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) di riferimento, nel corso del passato anno scolastico, al fine di ottenere il riconoscimento dei diritti dei loro figli. In un Paese “normale”, invece, i provvedimenti della Magistratura – auspicabili, quando necessari – dovrebbero costituire solo la residualità dei casi. Da noi, invece, sin troppo sovente accade il contrario, cosicché la garanzia dei sacrosanti diritti all’integrazione e alla continuità didattica per un alunno con disabilità si ottiene sempre più frequentemente per via giudiziaria, registrando evidentemente l’inefficienza e il fallimento di un’Amministrazione incapace di applicare la nostra pur avanzata e “illuminata” legislazione scolastica.
L’inclusione, pertanto, non la devono fare i Giudici, ma il rispetto delle leggi attualmente in vigore e, soprattutto, la non più rinviabile e preannunciata riforma del sostegno, con un piano strutturale di stabilizzazione dei circa 60.000 insegnanti di sostegno precari, con il loro definitivo transito dall’organico di fatto a quello di diritto, vincolandoli inoltre all’alunno con disabilità per l’intero segmento formativo. Senza tali interventi di sistema e con le sole Sentenze della Magistratura, il processo di inclusione dei nostri ragazzi rimarrà desolatamente un’utopia e solo sulla carta.