Sono un’Educatrice Tiflologica e dovrò ancora “giustificare la mia esistenza”

«In base alla nuova normativa – scrive Valentina Ferretti, educatrice di ragazzi con disabilità visiva – sono obbligata in questi mesi, da lavoratrice, a frequentare il corso universitario intensivo annuale, che istituisce la figura dell’Educatore Socio-Pedagogico. Ma è proprio necessario che chi, come me, ha frequentato a suo tempo un corso di qualifica professionale per diventare “Istruttore per minorati della vista” e gode già di una discreta esperienza sul campo, debba ritrovarsi a dovere “giustificare la propria esistenza professionale”?»

Bambina cieca a scuola

Un’educatrice insieme a una bambina con disabilità visiva

Grazie alla segnalazione di una cara amica, Nadia Luppi, lettrice e autrice di «Superando.it», ho letto l’articolo di Marco Condidorio pubblicato qualche settimana fa da questa stessa testata (“Mozione d’ordine” sull’Educatore Tiflologico).
Con Nadia Luppi ci conosciamo sin dai tempi dell’università, lei – ipovedente – conosce il mio percorso formativo e le avevo parlato recentemente dell’obbligo che in questi mesi, da lavoratrice, mi costringe a frequentare un corso universitario intensivo annuale in base alla nuova normativa (Legge 205/17, cosiddetta “Legge Iori”), che istituisce la figura dell’Educatore Socio-Pedagogico.

Per dare un’idea della mia formazione, dopo la laurea triennale in Filosofia, nel 2005 ho dedicato un intero anno a un corso di qualifica professionale per diventare “Istruttore per minorati della vista”, organizzato dall’Agenzia Formativa dell’IRIFOR Toscana [Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione dell’UICI, N.d.R.] e dall’UICI di Firenze, in convenzione con la Provincia di Pistoia, finanziato totalmente dalla Regione Toscana, con il contributo del Fondo Sociale Europeo.
Il corso MINORIST, alla sua seconda edizione, è stato di 900 ore (700 formative e 200 di stage) e per poterlo frequentare ho dovuto superare una selezione iniziale e mettermi alla prova in un esame finale.
È stato un corso che di per sé non mi ha nello specifico insegnato a lavorare nella scuola, nella didattica, ma che mi ha permesso di conoscere gli strumenti tiflodidattici e tifloinformatici, mi ha introdotto in ausilioteche, nel Centro di Consulenza Tiflodidattica, nella Stamperia Braille e nel Convitto Vittorio Emanuele II di Firenze.
Ho approfondito la normativa che tutela i soggetti non vedenti e quella relativa alla sicurezza e ai rischi nei luoghi di lavoro; ho studiato Anatomia Oculare, alcune patologie e i principali ausili; la storia e lo sviluppo degli strumenti per la riabilitazione visiva e tutto ciò che concerne la scrittura Braille, i supporti informatici per disabili visivi, dalla Tifloinformatica alla trascrizione di testi in Braille, fino ad arrivare alle metodologie per incrementare l’orientamento e l’autonomia personale delle persone con disabilità visiva. Ho preso consapevolezza delle possibili implicazioni patologiche connesse con i deficit visivi, acquisito basi di Psicologia Generale e dell’Età Evolutiva, approfondito la questione delle pluriminorazioni e le relative possibilità di riabilitazione.
Una volta terminato il corso, sono stata inviata dal Centro di Consulenza Tiflodidattica di Firenze presso alcune scuole, per l’avviamento al Braille di alcuni bambini e per l’affiancamento ai loro insegnanti.
Ho lavorato io stessa come insegnante di sostegno di un bambino ipovedente presso una scuola paritaria. Già, perché nonostante la laurea (triennale, ahimè, mi sono iscritta all’università nel 2004, anno dell’inizio della “Riforma Moratti”) e il corso qualificante, questo titolo non è spendibile in alcun luogo. Tant’è che dopo vario peregrinare e lavori brevi e precari, ho deciso di trasferirmi a Bologna e di accettare un lavoro presso una Cooperativa Sociale. Sono così diventata “casualmente” educatrice, principalmente scolastica.
Negli ultimi undici anni ho lavorato e ho fatto esperienza e formazione su vari tipi di disabilità, uditiva, cognitiva, intellettiva (autismo) e soltanto negli ultimi anni ho avuto incarichi con la disabilità visiva.

Adesso mi ritrovo a dover “giustificare ancora la mia esistenza professionale”, avendo l’obbligo di conseguire questa laurea che vorrebbe dare dignità al lavoro di Educatore. Corso universitario prettamente teorico che niente aggiunge e non specializza.
Per questo leggere l’articolo inizialmente citato mi ha smosso le viscere: possibile che non ci sia scambio di informazione tra diverse componenti dell’UICI? Possibile che questo corso, serio e valido, sia stato proposto solo a Firenze e a Pistoia dall’allora presidente dell’UICI Toscana Carlo Monti e non possa fare da precedente o per lo meno aprire la strada a un modo diverso di fare formazione? Cosa c’è di più specializzante di una qualifica tecnica? A cosa serve una nuova laurea? Ad arricchire le università e a creare nuovi disoccupati o vecchi lavoratori sottopagati?

Nelle scuole pochissimi docenti scelgono di fare sostegno, la maggior parte è di transito da una disciplina in cui non trova una cattedra (dieci anni fa erano tutti laureati in Lingue, poi c’è stato il periodo di Arte e adesso provengono tutti dal Conservatorio). Negli ultimi mesi, per far fronte alla mancanza di docenti, si è dovuti addirittura arrivare in fondo alla terza fascia, perché di insegnanti non se ne trovavano più e chiunque andava bene pur di non avere un buco, un bambino “scoperto”. Ma con quali costi? Educativi, etici, sociali?

Dovremmo pensare anche a una riforma universitaria con una specializzazione ad hoc per il sostegno. Non deve essere un ripiego, un passaggio o una forzatura. Deve essere una scelta, una specializzazione mirata.
Leggo, nell’articolo di Marco Condidorio, che «in questi giorni, presso il Ministero, abbiamo allo studio alcuni profili per queste professionalità che dovranno affiancare alunni e studenti in condizioni di disabilità, che oltre a prevedere percorsi formativi davvero impegnativi – per non dire oltre le aspettative, considerati i titoli in ingresso che dovranno possedere i candidati – prevedono in uscita titoli del tipo “Assistente alla Comunicazione e all’Autonomia per Ciechi e Non Udenti”».
Altri percorsi formativi? Perché invece non cercare di capire cosa i vari territori hanno già provato a sviluppare e definire un denominatore comune, collaborare con quelle figure che già esistono?
Non posso che riprendere una frase già apparsa recentemente su queste pagine, ovvero: «Non moltiplicare le cose, se non ve n’è necessità!».

Educatrice di ragazzi con disabilità visiva.

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