In giro per l’Italia stanno nascendo come funghi i parchi gioco cosiddetti “inclusivi”: associazioni, madri e amministrazioni pubbliche si prodigano a realizzarli.
Da una parte dovrei essere contento di queste nobili iniziative, ma dall’altra mi pongo alcune domande: perché un bambino con disabilità deve avere un gioco solo per disabili? Chi desidera veramente quei parchi gioco? Il bambino o la bambina con disabilità? O chi per essi? I genitori per placare un loro senso di colpa?
Anch’io da bambino volevo andare sull’altalena, per me rappresentava una sorta di libertà. Ma la libertà stava nel fatto che abbandonavo la carrozzina. Se il genitore mette sull’altalena il bambino insieme alla carrozzina, mi chiedo… dove sta quella libertà per il loro figlio? Non esiste più. Perché anche su quell’altalena il bimbo rimane incollato, inchiodato su quella carrozzina.
Mi ricordo, invece, quando i miei amici mi toglievano dalla carrozzina e provavo un contatto fisico con loro. Dalla carrozzina passavo a quell’altalena, e in quel passaggio sentivo le gambe del mio amico che mi rendevano libertà, e gli altri miei coetanei mi spingevano. Era un’altalena come tante, era un gioco come molti.
Allora la mia domanda si ripropone: chi vuole veramente questi giochi “inclusivi”? Il bambino con disabilità o i genitori? Che ancora una volta vedono il figlio o la figlia solo come disabili, e li vogliono preparare a un “mondo disabile”?
Invece si dovrebbe incominciare – imparando proprio dal gioco e dal divertimento – a non creare più differenze, etichette, stereotipi. Il “gioco” più bello per un bambino o bambina che vive in un contesto disabilizzante è la sua carrozzina. Mi ricordo, durante l’infanzia, le partite a pallone con la mia carrozzina, e i miei amici che mi spingevano dietro a una palla. Non creavamo “giochi per disabili”, giocavamo e basta. A volte bucavamo le ruote della carrozzina, ma anche quello faceva parte del gioco.
Uno dei rischi maggiori cui mi capita di assistere oggi riguarda il fatto che i genitori di bambini inseriti in un “contesto disabilizzante” si stiano improvvisando a volte psicologi, a volte pedagogisti, pensando di fare il bene dei propri figli; in questo modo, però, rischiano di confondere le parole. A mio avviso, infatti, si sta abusando troppo dei due termini “inclusione” e “integrazione” e provo a spiegare il perché: una persona che si trova a vivere in un “contesto disabilizzante” non deve essere né inclusa, né integrata, perché già “vive il suo diritto” con la sua esistenza, un diritto che definirei di “uguaglianza – insieme”.
Come hanno scritto recentemente su queste stesse pagine Claudia Protti, Raffaella Bedetti e Alessandra Corradi [nel testo “Altalene non inclusive”, N.d.R.]: «Un’altalena solo per sedia a rotelle non è un gioco inclusivo. Soffermiamoci infatti sul significato dell’aggettivo inclusivo, che cosa vuol dire? Vuol dire che permette a tutti di fruire di un qualcosa nello stesso momento e nello stesso luogo e quindi è implicito il concetto di condivisione sociale/aggregativa, che è il contrario appunto della ghettizzazione e della discriminazione. Un’altalena che fa dondolare in solitudine un bambino o una bambina, già isolato dall’essere su una sedia a rotelle, non include nessun altro coetaneo, invece al parco i bambini si raggruppano spontaneamente per giocare insieme».