Dagli interventi al Senato dei diversi esponenti della compagine governativa, che hanno poi portato all’approvazione del Decreto Legge 4/19 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), trasmesso ora alla Camera [Atto n. 1637, N.d.R.], emerge con preoccupante evidenza di come la tutela lavorativa sia concepita lecita soprattutto per i cittadini in condizione di “produttività”, mentre dev’essere trattato a parte chi non è “propriamente produttivo”, e/o lo potrebbe diventare, in parte minimale, a fronte di costi troppo elevati che l’attuale contingenza economica non può permettersi.
Il compito dello Stato, espresso chiaramente nella discussione in Senato è quindi quello di “agevolare” la famiglia nella preziosissima opera di ammortizzare quella “stonatura redditiva” creata dalla “divers…abilità”…
Prendiamo atto della precisa volontà politica di limitare l’accesso al reddito di cittadinanza ai nuclei familiari che hanno, fra i loro componenti, anche delle persone con disabilità. La persona con disabilità, in Italia, è ormai definitivamente da considerare come un “affare di famiglia”, il cui compito prioritario è quello di prendersene cura, vicariando lo Stato, attraverso la “custodia nel proprio focolare”. Persone troppo scomode che impattano sfavorevolmente nella collettività già impegnata con molta difficoltà nel produrre ricchezza per il Paese…
Che restino quindi comodamente riposte tra gli affetti di casa – per chi ce l’ha – con i propri congiunti – se presenti – inderogabilmente designati al “lavoro di cura”. La loro presenza è accettata nei giardini pubblici o nelle comunità “border line”, nelle scuole pubbliche di frontiera o assemblate nei centri residenziali diurni, meglio ancora se a tempo pieno. Lontani, però, dai luoghi destinati alla produttività economica e con buona pace dei buoni princìpi di inclusione tanto decantati nei comizi e nei talk-show elettorali.
Corre l’obbligo ancora una volta di rammentare al Governo come sia definita nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità – che ormai da dieci anni è una Legge dello Stato [Legge 18/09, N.d.R.] – il concetto della discriminazione di un’intera categoria di cittadini.
La Costituzione Italiana, inoltre, chiarisce in più di un suo articolo, e prescrive all’articolo 3, senza possibilità di fantasiose interpretazioni alternative, che il dovere dello Stato non è quello di “agevolare” una disparità tra cittadini di diverse condizioni, ufficializzando come sostituti di quegli stessi doveri i loro nuclei familiari, ma di operare per “rimuovere”, quindi eliminare, «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
E nell’articolo 2 il concetto è ancora più esplicito, quando si «richiede allo Stato l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
Ancor di più: si parla di “discriminazione diretta” (Legge 67/06), «quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga». Ed è proprio questo che avviene indiscutibilmente quando in un Disegno di Legge si prevede esplicitamente, per l’accesso al beneficio del reddito di cittadinanza, di «concorrere cumulativamente a diversi requisiti» che considerano una ricchezza del nucleo familiare quei supporti economici, peraltro notoriamente insufficienti e residuali, erogati per attenuare lo svantaggio della disabilità.
Quindi, a parità di condizioni reddituali, una famiglia che ha il “torto grave” di avere tra i suoi membri una o più persone con disabilità vrà accesso a un sostegno inferiore rispetto a una famiglia che non ha disabili tra i suoi componenti, subendo di fatto un’indiscutibile discriminazione diretta.
Ancor di più sarà evidente la discriminazione per quelle stesse famiglie le quali – per effetto della presenza di un maggior numero di persone con disabilità e necessità assistenziali a causa di condizione di gravità – percepiscono erogazioni monetarie e sociali maggiori. E ciò varrà anche per le singole persone con gravi disabilità che con enormi difficoltà tentano di vivere in modo indipendente nella collettività, per mezzo di risicati e discontinui finanziamenti dedicati alla loro assistenza personale, considerati nella parte non rendicontabile come un reddito!
Fin nel suo Preambolo, la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità sancisce, invece, la necessità di «promuovere e proteggere i diritti umani di tutte le persone con disabilità, incluse quelle che richiedono sostegni più intensi […] riconoscendone l’urgente necessità di affrontare l’impatto negativo della povertàe la parità di opportunità».
Nella discussione al Senato, si è affermato che la Sentenza del TAR del Lazio 2549/15 e quella definitiva del Consiglio di Stato 842/16 riguardassero solo l’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente). Ma questa è un’interpretazione profondamente errata.
Il Consiglio di Stato, infatti, ha ben chiarito che considerare tra i requisiti di accesso ad un qualsiasi beneficio «i trattamenti percepiti dai disabili considerando la disabilità alla stregua di una fonte di reddito – come se fosse un lavoro o un patrimonio – ed i trattamenti erogati dalle pubbliche amministrazioni, non un sostegno al disabile, ma una “remunerazione” del suo stato di invalidità [non solo] è oltremodo irragionevole [ma] in contrasto con l’art. 3 della Costituzione».
Pare assurdo dover sempre ricordare, in una Nazione Democratica come la nostra, che ciò che viene erogato per supportare lo svantaggio della disabilità non può in alcun modo trasformarsi in un vantaggio! Questo concetto, così ben chiarito nella citata Sentenza del Consiglio di Stato, presuppone non solo quanto sia in contrasto con tutto il nostro ordinamento trattare lo svantaggio (la mancanza di pari dignità e disuguaglianza dovuta a “condizioni personali e sociali” causate dalla disabilità) come un vantaggio reddituale, ma chiarisce altresì come occorra prevenire proprio quell’impoverimento reddituale attraverso una o più scale di equivalenza.
Vorremmo infatti anche rammentare che esiste già un presupposto di iniquità della stessa scala d’equivalenza fissa, utilizzata nell’attuale computo ISEE, per segnalare la condizione di disabilità, che fu introdotta con un emendamento, posto a fiducia, dal precedente Governo Renzi, nel Decreto Legge 42/16 (Disposizioni urgenti in materia di funzionalità del sistema scolastico e della ricerca) e senza alcuna adeguata discussione parlamentare.
Tale scala d’equivalenza fissa fu arbitrariamente posta in sostituzione – quindi non in ottemperanza alla Sentenza del Consiglio di Stato – delle più adeguate e proporzionate franchigie parametrate alle differenti condizioni di maggiore o minore necessità assistenziali legate alla disabilità, che non è uguale per tutti.
Quella scala d’equivalenza così rigidamente concepita ha finito di fatto per favorire proprio quei nuclei familiari con i redditi più alti e non già le famiglie maggiormente gravate da un intenso disagio economico prodotto da più elevate necessità assistenziali.
In conclusione, vogliamo quindi sottolineare ciò che dovrebbe essere il dovere di uno Stato Civile, ovvero la prioritaria finalità di produrre uguaglianza e pari opportunità per tutti i cittadini e non invece di ratificare la profonda disuguaglianza creata da un costante abbandono istituzionale e sull’illusione di un cambiamento favorevole che, nella pratica, si trasforma in emarginazione ulteriore.
Pertanto – come abbiamo già fatto in precedenti documenti, rivolti in quel caso al Senato – reiteriamo anche alla Camera la richiesta di modificare il comma 7 dell’articolo 2 del Decreto Legge 4/19, escludendo dall’accesso al beneficio il computo di ogni supporto erogato per la disabilità e chiediamo altresì di introdurre, nel comma 4 dell’articolo 2, la scala di equivalenza che segnali la presenza nel nucleo familiare di un globale impegno economico nel “mantenere” la disabilità di un congiunto, graduandola in base al maggiore impegno tra disabilità lieve, media e non autosufficienza (0,4 per la disabilità lieve, 0,5 per la disabilità media e 0,7 per la non autosufficienza).
Il diritto di pari opportunità dell’individuo rappresenta lo scopo, la sintesi, di ogni Trattato che ne sancisce i Diritti Umani. Ed è in questo principio che una politica che si propone come cambiamento verso una maggiore giustizia sociale, dove “nessuno deve più rimanere indietro”, dovrebbe veicolare le proprie energie nel garantire a tutti i cittadini il diritto all’autodeterminazione e all’indipendenza. Il diritto di scegliere come vivere la propria vita, come cittadino libero in un libero Stato.