«La “storica” Società Mattel – leggiamo – ha annunciato l’arrivo di una Barbie su sedia a rotelle e una con protesi alle gambe. Alla Mattel, inoltre, hanno pensato anche all’accessibilità e al concetto di barriere architettoniche, prevedendo, nella confezione del modello in carrozzina, anche una rampa che permetterà alla Barbie di entrare e uscire dalla sua Dream House. La bambola uscirà nei prossimi mesi e verrà venduta negli Stati Uniti a circa 20 dollari».
Su tale iniziativa diamo spazio, qui di seguito, a due opinioni di segno decisamente diverso, espresse rispettivamente da Simona Petaccia*, giornalista e presidente dell’Associazione Diritti Diretti e da Tonino Urgesi, esperto di affettività e sessualità nelle persone con disabilità.
Questa Barbie che sfiderà un altro stereotipo
di Simona Petaccia*
Lo ammetto, da bambina, mi interessavano i giochi che sono solitamente ritenuti adatti al genere maschile: macchinine, pistole, videogiochi ecc. Ero, insomma, quel che si suol definire un “maschiaccio”. Non ho mai amato le classiche bambole da accudire, lavare, nutrire ecc.
Per me c’era soltanto un’eccezione: Barbie. Forse, inconsciamente, percepivo la modernità di quella creazione di Ruth Handler, nata per infrangere i confini di una vita femminile già delineata tra le mura di casa, nel ruolo esclusivo di moglie e madre. Fatto sta che ne avevo molte, tutte diverse e ognuna con una fantasia diversa. Con lei ero detective, veterinaria, attrice, cantante e, ovviamente, giornalista.
Certo, è vero, la Barbie è stata anche una delle bambole più condannate di tutti i tempi per il fatto di comunicare un esempio irraggiungibile di bellezza femminile: magra, alta, salubre, formosa e sempre impeccabile nello stile. È stata, infatti, così tanto criticata per questo, da stimolare il marchio Mattel a ripensare la sua strategia commerciale, così come viene raccontato nel documentario Tiny Shoulders: Rethinking Barbie nel quale si mostra quanto la storia di questa bambola sia fortemente legata a quella della femminilità.
Questo intreccio si rafforzerà ulteriormente in questo 2019, cogliendo il tema della femminilità nelle donne con disabilità motoria. Il prossimo mese di giugno, infatti, negli Stati Uniti si vedrà il debutto di due nuove Barbie: una con una gamba protesica e l’altra con una sedia a rotelle.
Le due novità non potevano che essere inserite nella linea Barbie Fashionistas 2019, nata nel 2016 per offrire una rappresentazione delle diverse bellezze esistenti, attraverso l’inserimento di 4 nuovi tipi di corporatura, 7 tonalità della carnagione, 22 colori degli occhi e 24 pettinature.
Per molti, sembrerà un semplice lancio commerciale, ma queste due nuove bambole sono anche un successo per l’affermazione dei diritti delle persone con disabilità. È un importante evento simbolico, perché, se si vuole realmente concretizzare l’inclusione, bisogna vedere le persone con disabilità riflesse nella cultura, nel linguaggio, nei prodotti e in tutto ciò che ci circonda nella vita quotidiana.
Barbie è ormai un’icona e, come tale, può aprire il discorso sulle disabilità fisiche tra i giovanissimi, proponendo un’idea nuova della bellezza e della moda. Può aiutare a proporre la donna con disabilità semplicemente come uno dei tanti standard, così da farla percepire non più come un’eccezione che meraviglia e/o allontana.
In questo progetto, poi, c’è un altro aspetto positivo da evidenziare: l’azienda non ha affidato la realizzazione soltanto al suo personale interno, ma si è avvalsa della collaborazione di chi vive queste condizioni sulla propria pelle. Per creare la bambola con la protesi, infatti, Mattel ha collaborato con Jordan Reeves, attivista di 13 anni nata senza l’avambraccio sinistro, che ha suggerito un arto rimovibile per offrire un’esperienza di gioco “più realistica”.
La bambola con la sedia a rotelle è nata invece grazie alla collaborazione con l’UCLA Mattel Children’s Hospital di Los Angeles con il quale la Mattel ha scelto di rappresentare un modello di carrozzina progettato per una donna con disabilità fisica permanente.
La bambola ha anche un corpo snodato che le permette di sedersi e muoversi, oltre che una rampa con cui completare la sua Dream House per sottolineare l’importanza dell’accessibilità universale negli ambienti circostanti.
Quando ho letto del corpo snodato, mi è sembrata un’ottima idea e ho sorriso. Ho sorriso perché, pur non avendo mai avvertito un forte istinto materno, ho sempre avuto un ottimo feeling da zia con i bambini. Ci troviamo simpatici a vicenda fin da subito e, una volta studiata la mia carrozzina con le sue luci, molto spesso mi chiedono: «Ma, tu, come fai a dormire qua sopra?».
Ecco, ora Barbie sfaterà anche un altro stereotipo avvalorato da un uso improprio del linguaggio: vedranno che chi usa una carrozzina si sdraia, perché non è “costretto sulla sedia a rotelle”.
Ma sul serio ci vuole una bambola per educare?
di Tonino Urgesi*
Da sempre, il gioco è stato considerato come una sorta di relazione: il bambino, giocando, si relaziona con l’altro, con la mamma, o con l’amico; ma si relaziona anche con il giocattolo. Il giocattolo è la proiezione del sé, e il bambino sviluppa la propria identità attraverso il gioco e il giocattolo. Tutta la letteratura pedagogica questo ce lo insegna bene.
Però, come sempre, cerchiamo di fare un passo oltre e di affrontare la questione del giocare in relazione alla disabilità: come può giocare un bambino che vive in una “condizione disabilizzante”? Ovviamente, se il bambino vive una disabilità motoria, il giocare non sarà il correre, il prendere il compagno o farsi prendere, ma si limiterà a un gioco da tavola; quel tavolo diventerà la base della relazione tra lui e l’amico.
Mi viene in mente il gioco dei Lego, delle costruzioni, il gioco del puzzle, e così via. Tutto si basa su quella dimensione, la dimensione limitata del tavolo o del tappeto. L’amico o l’amica che giocano con il compagno costretto a quel tavolo o a quel tappeto, non stanno vivendo il gioco come una costrizione inconscia, ma vivono quel gioco come relazione e come “esplorazione” della disabilità del compagno. Così il gioco diventa anche il mezzo pedagogico per esplorare ed educarsi alla disabilità del compagno.
Tra qualche mese sarà sul mercato italiano una Barbie sulla carrozzina. A cosa serve? A porre l’accento ancora una volta sulla diversità tra una bambola in piedi e una seduta? Quella bambina che la comprerà, con la quale giocherà, cosa imparerà? Che esiste anche la bambola disabile? E tutte le battaglie pedagogiche, psicologiche e antropologiche che si sono fatte per abbattere pregiudizi e pensieri di diversità, dove vanno a finire?
Dicevamo che il gioco è una delle prime relazioni con l’altro, con “l’amico altro da me”, che mi fa riconoscere la mia e la sua identità; quindi, a cosa può servire acquistare una bambola disabile? A far capire ai bambini la disabilità? Alla bambina che vive in un contesto disabile non credo proprio, perché ha già la propria disabilità con cui vivere; e non credo che la bambina sia così masochista da voler desiderare una bambola disabile come lei; tanto meno penso alla bambina “normodotata” che ha l’amica o l’amico in carrozzina e che voglia anche una bambola disabile.
L’azienda che ha ideato di mettere sul mercato una bambola del genere dovrebbe dunque spiegare di quale metodo pedagogico si sia avvalsa per promuovere un modello di questo tipo. Allora a questo punto dovrebbe mettere anche sul mercato la Barbie sovrappeso, quella con le rughe, quella povera, quella lesbica… Ma a quanto pare ha fatto solo quella con disabilità. Perché?
La Barbie, dagli Anni Settanta ad oggi, è un modello per le bambine, rappresenta la “ragazza perfetta”. E allora permettiamo pure alla multinazionale di educare i nostri figli con una Barbie disabile, borghese con il camper e mille vestiti alla moda; che poi, a ben guardare, di ragazza ideale non ha nulla, ma la maggior parte delle persone delega anche l’educazione dei propri figli a un mondo ludico, senza impegnarsi a dar loro il buon esempio, insegnando loro a relazionarsi con tutti, anche con chi vive in un “contesto disabilizzante”.
In definitiva, non penso proprio che questa bambola possa servire per educare i bambini alla disabilità o alla diversità dell’altro. Ma penso che serva di più una nuova cultura, la cultura dell’incontro come la cultura del giocare, con l’amico o l’amica che è in un contesto disabilizzante, che nasce da una “nuova pedagogia della disabilità”. E quest’ultima può sorgere solo là dove il compagno vede nell’amico una nuova persona che non parte dal proprio contesto disabilizzante, ma che è capace di andare ben oltre.
Questa pedagogia dovrebbe scaturire dalle scelte politiche, dalla scuola e in aula, dove ci siano la maestra o la professoressa che sappiano vedere l’alunno con disabilità come alunno, e non più solo come un disabile; e dalla famiglia, aperta e capace di guardare la realtà con occhi diversi, ad esempio facendo incontrare il proprio figlio o figlia con il compagno di classe che vive la propria disabilità.
Tutto questo non si può certo fare attraverso una bambola; e poi, diciamolo, questa bambola non è disabile, se è vero che può stare anche in piedi. Se io la prendo e la estrapolo dalla sua carrozzina, quella bambola non ha più l’handicap.
E allora torno alla domanda iniziale: a chi serve una Barbie con una protesi o in carrozzina? Credo a nessuno, né ai disabili e né ai bambini o alle bambine che giocano con la Barbie. E che tipo di pedagogia si intende presentare al mondo? Credo non sia in questa maniera che possiamo superare il problema della disabilità, educando ad essa solo con i giocattoli; piuttosto, ribadisco, i genitori dovrebbero educare i propri figli a quella “nuova cultura” di cui ho detto, per incontrare la disabilità e, vivere relazioni, amicizie, innamoramenti anche con le persone così definite disabili.