Vengo a conoscenza, grazie un interessante articolo pubblicato su queste stesse pagine, che domani, 20 marzo, presso il Comune di Asti, verrà presentato alla cittadinanza, ad un anno dall’inizio della sperimentazione, il progetto 19 PARI! – VINCO IO. Percorso per il Diritto di Abitare in Autonomia per le Persone con Disabilità, iniziativa promossa dall’Associazione CEPIM Centro Down di Asti, con il sostegno della Compagnia di San Paolo e cofinanziato dalla Fondazione SociAL, in collaborazione con il Comune di Asti, il Centro Down di Alessandria e il Centro Di.Vi. dell’Università di Torino (Centro Studi Interdipartimentale per i Diritti e la Vita Indipendente).
La mia esperienza di vita indipendente quale disabile grave, intrapresa nel lontano 2003, mi porta a salutare con grande soddisfazione l’attivazione di progetti che coinvolgano tutti i tipi di disabilità in un percorso di autodeterminazione dei soggetti disabili e delle loro famiglie.
La conoscenza e la coscienza della possibilità, ma soprattutto dell’assoluta necessità, di dover attivare dinamiche di responsabilità e di vita autonoma per le persone con disabilità è essenziale, non solo per soddisfare il doveroso diritto di uguaglianza delle persone nella società, ma soprattutto perché permette di accendere una meravigliosa luce nella vita di coloro che per troppo tempo hanno dovuto credere che il loro futuro sarebbe stato di dipendenza istituzionalizzata. Per noi è come scoprire un nuovo mondo che ci rende “affamati del futuro”.
La realtà, però, è un po’ più complessa e, soprattutto, contraddittoria.
Se infatti da una parte è sempre più viva la coscienza da parte degli Amministratori e della società civile tutta che sia necessario, doveroso, etico e dignitoso promuovere la cultura dell’inclusione intesa come esercizio individuale della propria libertà di autodeterminazione e della conseguente scelta di vita da parte delle persone con disabilità, dall’altra parte vecchi retaggi culturali, difficili da scalzare, molto spesso confondono il naturale diritto di scelta del proprio percorso di vita con una tipologia di assistenzialismo intrisa di buoni propositi paternalistici.
Questa dicotomia, purtroppo, genera, inevitabilmente, processi mentali e conseguenti decisioni del tutto inadatte ad affrontare la sfida per rendere davvero concreta questa evoluzione di pensiero riguardante il ruolo attivo che i soggetti con disabilità non solo hanno il diritto di avere nell’àmbito della società, ma che hanno anche il dovere di esercitare, proprio per il fatto stesso di essere soggetto attivo, nonché, nell’ambito delle proprie capacità residue, anche soggetto economicamente produttivo.
I progetti di vita indipendente, infatti, nascono con il precipuo intento di permettere al soggetto disabile di progettare il proprio futuro esattamente con le stesse possibilità di scelta delle persone “normodotate”. Ciò significa, quindi, che la società deve fornire tutti quegli strumenti (operativi, economici ed organizzativi) necessari per programmare il proprio percorso di vita, il quale percorso deve necessariamente tenere in conto anche l’aspetto lavorativo del soggetto con disabilità, che diventa, pertanto, elemento che contribuisce anch’egli alle dinamiche economiche e civili della società. Proprio per questo si parla di progetti di vita indipendente “personalizzati”, in quanto ogni soggetto disabile (ma anche no) riveste un caso a sé, sia dal punto di vista dell’handicap di cui è portatore, sia dal punto di vista del contesto familiare, sociale e culturale in cui vive. Ne consegue, pertanto, che, per alcuni soggetti disabili sarà necessario strutturare progetti più elaborati e, conseguentemente, più costosi, mentre per altri sarà sufficiente accompagnare con professionalità e umanità le persone verso l’agognata autonomia.
L’“anima” e il “cuore”, per così dire, dei progetti di vita indipendente sono gli “assistenti personali”, ovvero quelle figure indispensabili per permettere ai soggetti disabili di svolgere tutte quelle funzioni che l’handicap del soggetto impedisce di svolgere in forma autonoma. Sia che si tratti di disabilità fisica o intellettiva, l’assistente personale deve essere visto come un vero e proprio “prolungamento” della persona disabile, con la funzione precipua di provvedere allo svolgimento di tutte quelle attività che rappresentano la volontà del soggetto disabile con il necessario e indispensabile senso di responsabilità e coscienza che il ruolo impone.
In tutti questi casi, comunque, l’attivazione sostanziale di progetti di vita indipendente comporta la necessità di avere a disposizione risorse economiche congrue allo scopo; e qui ci si ferma, purtroppo.
L’assistente personale deve essere assunto con contratto regolato dalle norme vigenti in materia di contratti di lavoro e deve essere remunerato in funzione dell’impegno richiesto in termini di ore lavorative. Ci potranno essere situazioni che necessitano della presenza dell’assistente per alcune ore del giorno e/o della notte, mentre, in altre situazioni, sarà necessaria anche una presenza su tutto l’arco delle ventiquattr’ore, con la conseguente necessaria turnazione di più assistenti. I costi, pertanto, sono variabili, ma possono anche essere decisamente sostanziosi; da ciò consegue che il Legislatore debba tenere in debito conto l’aspetto economico, legiferando in modo da stanziare congruamente le risorse necessarie.
Risulta, pertanto, incomprensibile e, anche tristemente deludente, la lettura dell’ultimo Decreto Direttoriale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, prodotto nello scorso mese di dicembre, dove dopo aver citato tutti i riferimenti normativi, internazionali e nazionali, che sanciscono la necessità di provvedere legislativamente ad incrementare e a sviluppare provvedimenti atti a realizzare progetti di autodeterminazione e di vita indipendente dei soggetti disabili, provvede a stanziare per tutto il territorio nazionale la somma di 15 milioni di euro a valere sulle risorse assegnate per l’anno finanziario 2018. Tale finanziamento viene ripartito a livello regionale in funzione della popolazione residente sul territorio nella classe di età tra i 18 e i64 anni. Le Regioni comparteciperanno al finanziamento dei progetti di vita indipendente con risorse proprie.
È evidente che le risorse economiche messe a disposizione non potranno coprire minimamente le necessità dei territori e che, nella realtà dei fatti, gli auspicati progetti di autonomia non potranno essere realizzati, in quanto l’entità dei contributi economici non sarà sufficiente per realizzare condizioni di vita autogestita.
Di fatto, un contributo dell’ordine di 400-600 euro mensili non può essere considerato sufficiente per poter pagare le spese di un assistente personale e delle relative incombenze contrattuali. Ed ecco, quindi, che si ritorna al concetto iniziale che assolve al problema etico e civile di dover ottemperare alle direttive che impongono la nuova visione dell’integrazione e dell’autodeterminazione, ma che di fatto si risolvono in un mero assistenzialismo, senza minimamente permettere la vera autonomia per i soggetti con disabilità. Sembra quasi di sentirsi presi in giro in questa perversa dinamica del “dire ma non fare”.
Quanto sopra descritto è ciò che è accaduto – esattamente ancora un anno prima del sopraccitato Decreto Direttoriale – nella mia città di residenza, Asti, la stessa città che oggi vediamo in prima linea per le buone prassi relative al progetto sperimentale per la vita indipendente che coinvolge le disabilità intellettive.
L’assessora alle Politiche Sociali Mariangela Cotto, infatti, ha deciso in quell’occasione di dotare l’Amministrazione Comunale di un nuovo regolamento per l’accesso ai contributi di vita indipendente, dove non solo vengono valutati i parametri relativi ai redditi familiari del soggetto disabile per la concessione del contributo (in molte altre realtà questi non vengono presi in considerazione), ma oltre ad una serie di altri parametri di dubbia costituzionalità e di sicura stravaganza (ricoprire ruoli dirigenziali all’interno di un’Associazione di volontariato iscritta nel Comune di Asti), istituisce le cosiddette “fasce di necessità”: 200/400/600 euro mensili a seconda della condizione complessiva valutata dalla Commissione Multidisciplinare.
Queste sono le cifre previste per poter realizzare i propri progetti di autodeterminazione e di integrazione sociale. Lascio ai Lettori giudicare se possano essere considerate somme accettabili per la realizzazione del “nostro futuro”.
Si tenga presente, inoltre, che i progetti di vita indipendente allora attivi erano cinque e secondo l’Amministrazione Comunale, la diminuzione dei contributi economici – che fino ad allora potevano contare su cifre decisamente più congrue (1.000/1.500 euro mensili) – era propedeutica all’espansione della platea dei possibili fruitori dei contributi stessi. Tesi, questa, sconfessata a seguito del numero di domande consegnate da parte della popolazione disabile nel 2018: cinque erano e cinque sono rimasti. La quasi totalità di questi, però, non è risultata idonea e non ha ottenuto alcun contributo. Il sottoscritto, invece, anziché soddisfare le condizioni del nuovo regolamento, ha “scelto”, storto collo, di rinunciare al contributo per la vita indipendente, in quanto l’entità dello stesso (600 euro al mese) risultava essere esattamente la metà del precedente contributo ottenuto fino all’approvazione del nuovo regolamento. La necessità di dover pagare uno stipendio ben più alto per il proprio assistente personale mi ha obbligato a scegliere, mio malgrado, un contributo di entità maggiore (820 euro al mese) che viene erogato con i finanziamenti relativi ad una Legge Regionale del Piemonte riguardante contributi economici per la domiciliarità, che mi vede, comunque, penalizzato di ben 400 euro mensili rispetto al precedente contributo, ma che – più ancora dell’aspetto economico – mi vede deluso e sconcertato da un comportamento incomprensibile e incivile che mi fa perdere il diritto di poter rivendicare la mia autonomia e la mia autodeterminazione attraverso la partecipazione ai progetti di vita indipendente.
La dignità non si misura certamente in termini economici e, in conclusione, come si suol dire, non si può tenere il piede in due scarpe; l’Amministrazione Comunale di Asti non può togliere dignità e risorse economiche ai progetti di Vita indipendente e allo stesso tempo farsi promotrice di buone prassi per gli stessi progetti; è una questione di coerenza, di credibilità, ma invece sembra proprio quello che è: una patetica e ridicola farsa che, però, produce gravi conseguenze per chi la vita è obbligato a prenderla sul serio!