La Legge 68 è la base, ma deve cambiare ed evolversi

di Daniele Regolo*
«La Legge 68/99 sul diritto al lavoro delle persone con disabilità - scrive Daniele Regolo - deve certamente restare e tuttavia deve cambiare ed evolversi, guardando anche a modelli come quello anglosassone, che fa leva sulla non discriminazione piuttosto che sull’obbligo. Anche lì, infatti, esiste una serie di norme molto stringenti per evitare che si creino discriminazioni, e tuttavia, un patto tra Governo e Aziende, riassunto nel cosiddetto “Disability Confident”, ha portato risultati inattesi, con un aumento sensibile dell’occupazione delle persone con disabilità»

Operaio al lavoro in carrozzinaHo letto con grande interesse, e soprattutto con senso di gratitudine, il lungo e articolato contributo di Mario Mirabile e Giuseppe Biasco apparso sulle colonne di «Superando.it», con il titolo Disabilità e lavoro: a proposito di certi diritti.
Dico “gratitudine” perché se il motto Nulla su di Noi senza di Noi ha un senso, questi confronti tra diretti interessati sono l’ingrediente principale per crescere ed evolvere.

Penso fosse prevedibile che a destare allarme, nel mio precedente intervento [“Disabilità e lavoro: cinque azioni per cambiare, osare, migliorare”, N.d.R.], fosse proprio il punto riguardante la graduale abolizione dell’obbligo di assunzione delle cosiddette “categorie protette” previste dalla Legge 68/99 sul diritto al lavoro delle persone con disabilità, e tuttavia vorrei subito sgomberare il campo da un possibile equivoco: quella Legge deve restare, ma deve cambiare ed evolversi. Le “cinque azioni” che proponevo sono strettamente integrate e rappresentano, nella nostra visione, l’impalcatura, ovviamente legislativa, su cui rilanciare il tema del rapporto tra lavoro e disabilità.

Da un punto di vista strettamente personale, ossia nei panni di candidato, ammetto che avere iniziato a suo tempo i colloqui con una frase tipo «sei qui perché dobbiamo assumere in quanto obbligati dalla legge» mi mise in una condizione di profondo disagio. Sentivo la mia dignità violata: la mia mansione era evidentemente quella di “disabile”.
Quando affermo che, specularmente, le aziende vivono lo stesso disagio, non intendo certamente dire – questo è l’unico appunto che muovo agli Autori della replica al mio intervento – che siano tutte insensibili. Tutt’altro! È un discorso più complicato che va oltre alcuni miti con cui siamo cresciuti.

Sono un estimatore del modello anglosassone – certamente neanche questo perfetto -, che fa leva sulla non discriminazione piuttosto che sull’obbligo. Anche in questo caso esiste una serie di norme molto stringenti che vogliono evitare che si crei discriminazione, nel segno della parità di trattamento. Nello specifico, un patto tra Governo e Aziende riassunto nel cosiddetto Disability Confident ha portato risultati inattesi con un aumento sensibile dell’occupazione delle persone con disabilità.
È chiaro che ogni Paese o modello è espressione di una propria cultura, ma sicuramente prendere ispirazione da esempi concettualmente molto interessanti e che portano risultati tangibili, credo sia un passo da compiere.

Fondatore e presidente di Jobmetoo, agenzia per il reclutamento online di lavoro alle persone con disabilità (info@jobmetoo.com).

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