Chi scrive è in genere restio a parlare di sport, e tuttavia la conoscenza dell’Associazione Sportiva Dilettantistica Calcio Veneto For Disable mi ha spinto a un timido passo in questa dimensione. Si occupano di calcio e vantano di essere i primi in Italia ad avere aperto una scuola calcio per bambini con cerebrolesioni, nel 2016.
Parlando con il direttore sportivo, Luca Luchena, mi sono chiesto cosa spinga una persona a fare volontariato: e se i beneficiari avessero responsabilità? «La nostra Associazione – mi ha scritto Luca – è nata nel gennaio del 2014 allo scopo di promuovere il calcio ad atleti con disabilità, perché lo sport è di tutti e deve essere per tutti». Ammiro questo punto di vista: lo sport è universale, come la musica o un raggio di sole. Basta che sia accessibile.
Luchena continua a parlarmi dell’Associazione: «Insegnamo ai ragazzi a divertirsi col calcio e da poco ci siamo anche affiliati alla Federazione Paralimpica del Calcio Balilla. Abbiamo atleti con diverse disabilità, tra cui cerebrolesioni, disabilità fisiche, intellettive e relazionali. Abbiamo ragazzi fra i 6 e i 16 anni. E poi adulti. Pratichiamo il calcio a sette. Cinque nostri atleti sono nella Nazionale Paralimpica di Calcio a Sette e il nostro presidente è il commissario tecnico della Nazionale stessa».
Calcio Veneto For Disable ha sede a Camposampiero, in provincia di Padova, e punta al miglioramento dell’autonomia dei partecipanti. Il lavoro di gruppo è finalizzato anche a superare le barriere, fisiche e sociali e a favorire la crescita interiore.
Rammenta molte realtà che varcano la dimensione locale per coinvolgere utenti oltre i confini di zona. Per chi come me – che ha plasmato la sua inclinazione poetica in una piccola Associazione milanese e che nell’amato paese dei miei antenati trova una spiaggia accessibile anche per merito di un’Associazione di volontariato del luogo – è inevitabile caldeggiare la magia che le migliori Associazioni creano nell’incrementare la qualità della vita altrui.
Continuo ad ascoltare Luca Luchena: «A oggi – dice -, tra atleti, staff, dottori e volontari siamo un movimento di quasi cinquanta persone. La domanda che mi viene fatta è sempre la stessa: perché lo fai? Hai disabili in famiglia? E la risposta è sempre uguale: lo faccio perché sono loro a darmi forza, il loro impegno stimola il mio fare e il loro sorriso e la loro gioia mi ripaga di tutti i sacrifici. Mi arricchisco giorno per giorno, tanto da trasmettere questi ideali ai miei figli, volontari anch’essi».
In un Paese con più di 5 milioni emezzo di volontari, non posso esaurire i miei ragionamenti sugli effetti che ha il volontariato sul volontario con questa risposta. Ma intendo che uno dei motori che spinge la persona a donarsi agli altri risiede nel piacere di vedere il benessere generato sui beneficiari.
Volontari non ci si improvvisa. Il volontariato deve essere formato. Ma beneficiari si nasce? Se qualcuno decide di aiutarmi, oppure io scelgo di aderire a una realtà fatta di persone che mi donano qualcosa di importante di loro, qual è il ruolo che devo mantenere? Posso permettermi di dissentire da quello che viene fatto e di continuare a provare insoddisfazione?
Certamente sì, io credo. Il meccanismo di benessere prodotto da esperienze come quella dell’Associazione Calcio Veneto For Disable non è scontato. Ci sono aggregazioni dove non tutte le persone con disabilità si trovano bene. Penso ai gruppi in cui persone anziane e giovani coesistono perché la realtà di quel luogo non offre nulla di meglio. Quel meglio è qualcosa in più del nulla del posto, ma l’offerta non appaga gli uni e gli altri.
Anche in quel caso i volontari ci sono, quando ci sono, perché in certi luoghi non sembrano essere mai abbastanza: i volontari sono un bene molto prezioso, non dimentichiamolo. Ma quando i volontari ci sono, si comportano bene e non ci si trova a proprio agio per una qualsiasi lecita ragione, credo si debba sempre un sorriso. Quantomeno un gesto di riconoscenza, di educazione, al limite. Perché per i volontari quell’atto è gran parte del bottino che si portano a casa della nostra esperienza.
La lieta curvatura delle nostre labbra è il tesoro che li porta a tornare a rompersi le ossa nei cunicoli dei nostri bisogni e che si riversa sulle loro vite private. È l’argomento che permette a loro e a tutto il movimento di continuare a esistere.
Un sorriso a chi ci offre una mano è un atto di dovere che fa stare meglio la collettività.
Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Il dovere di un sorriso”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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