È una gran fortuna essere nati nella parte giusta del mondo, non dovremmo mai dimenticarlo! È il primo pensiero che mi ha attraversato leggendo la storia di Nujeen Mustafa, autrice del libro The girl from Aleppo, scritto a quattro mani con la giornalista Christina Lamb e pubblicato in Italia con il titolo Lo straordinario viaggio di Nujeen (HarperCollins, 2016), nel quale racconta la sua storia incredibile [ai Lettori segnaliamo anche l’intervista di Simone Fanti a Nujeen, pubblicata dal nostro giornale nel novembre 2016, N.d.R.].
Come si deduce, Nujeen è originaria della Siria. Aleppo, Siria: località geografiche che ascoltiamo al telegiornale, assuefatti dalle brutte notizie, al punto che siamo ormai incapaci di figurarci e trattenere l’orrore di quelle cronache; al punto che i TG stessi, dopo un po’ che una guerra è cominciata, la relegano in un minuto, per riempire uno spazio.
Nujeen è scappata dal conflitto che insanguina il suo Paese; insieme alla sorella Nasrine ha percorso 6.000 chilometri per salvarsi. Partendo da Kobane, si è imbarcata in Turchia e da lì ha raggiunto l’Europa, è arrivata al confine ungherese e, infine, la destinazione: Germania.
Fin qui la vicenda ricalca quella di migliaia di migranti, solo che la nostra protagonista ha fatto tutto su una sedia a rotelle, perché dalla nascita è affetta da tetraparesi spastica, una disabilità dovuta alla paralisi cerebrale infantile.
Quando è sbarcata sull’isola greca di Lesbo era l’estate del 2015, pochi giorni prima che la coscienza del mondo piangesse Aylan, il piccolo rifugiato siriano con la maglietta rossa, annegato su una spiaggia turca mentre fuggiva con la famiglia.
Anche l’approdo di Nujeen nel Vecchio Continente è immortalato in uno scatto, nel suo caso una foto di speranza mentre viene sollevata, sana e salva, dall’imbarcazione. «Sei la prima profuga in carrozzella», le dicono i volontari delle organizzazioni umanitarie con un filo di sorpresa nel vedere un’adolescente indomita che ha avuto il coraggio di affrontare la traversata in condizioni fisiche di partenza decisamente svantaggiate.
Lei e la sorella hanno lasciato i genitori in un campo profughi del Libano, genitori disperati al punto da affidare le due figlie più giovani al mare, consapevoli del pericolo, soprattutto per Nujeen che viene scarrozzata da Nasrine attraverso otto nazioni.
Un viaggio carico di timori e aspettative, costato circa 5.000 euro, un viaggio di non ritorno, comunque vada. Le ragazze rimangono a Lesbo una settimana, la più difficile, in attesa dei documenti. Dormono in una tenda, fuori ci sono i cani della polizia; una notte la passano in prigione. Si sentono in trappola, consapevoli di essere sgradite in ogni luogo che toccano.
Tutti comprendono la situazione drammatica dei rifugiati e la necessità di scappare, ma tutti vorrebbero che andassero da un’altra parte. La loro meta è la Germania, per arrivarci devono valicare i confini dell’Ungheria che vengono chiusi proprio mentre loro stanno arrivando in Europa; i migranti vengono respinti con lacrimogeni e cannoni ad acqua. La soluzione sarebbe ripiegare in Croazia o in Slovenia, ma l’inaspettata apertura della Germania spalanca le porte alle due sorelle che finalmente ottengono asilo. Se non ce l’avessero fatta, avrebbero dovuto inventarsi l’ennesimo cambio di programma in un percorso complicato che se è andato a buon fine si deve all’intraprendenza di Nujeen, un’intraprendenza che parte da lontano.
In Siria Nujeen era prigioniera in casa, non poteva neppure frequentare la scuola. Il problema non erano soltanto le barriere architettoniche. Nel suo Paese d’origine, infatti, la disabilità è una vergogna, una condizione circondata da pregiudizi che provoca discriminazioni quando non vere e proprie violenze.
La ragazzina, però, non si rassegna ad un destino che sembra scritto, i genitori in fondo le hanno sempre detto che l’aspetta un avvenire migliore. Negli anni si costruisce una cultura da autodidatta usando televisione e computer. Impara l’inglese con le soap-opera americane, studia storia, letteratura e scienze guardando i documentari. Nel frattempo scoppia la guerra.
Quella che all’inizio, nel marzo 2011, è una rivolta popolare contro il regime di Bashar Assad, si trasforma in un conflitto internazionale che vede su fronti opposti americani e israeliani, russi e iraniani. Sullo stesso terreno di combattimento c’è l’ISIS e la sua barbarie indiscriminata. È la popolazione civile a farne le spese: sei milioni di persone devono abbandonare le loro case, cinque milioni e mezzo trovano ospitalità nei Paesi vicini, di tre milioni di siriani non si sa nulla, non possono essere raggiunti perché vivono in zone assediate. Le stime sui morti sono prudenti e poco attuali, nel 2017 si parlava di 250.000.
Gli anni che dovrebbero essere i più spensierati, Nujeen li trascorre in un forzato confino casalingo, da disabile e sotto la minaccia delle bombe. Facebook è la sua finestra sul mondo, i gruppi creati dai profughi sul social network diventano una fonte di informazioni sui percorsi più sicuri per fuggire.
La prima volta nella sua vita che si affaccia fuori di casa è per scappare e non tornare mai più. Il bagaglio di conoscenze che si è creata con tanta volontà è indispensabile, parla inglese e fa da tramite, si sente utile, una nota positiva nel mezzo di un tragitto accidentato, tra gli scossoni della carrozzina che fiaccano il corpo e la mente.
Il presente di Nujeen, stabile e sereno, allora non era immaginabile, neppure lei osava sperare tanto. Ora che vive in Germania, dove studia e può curarsi, sembra possibile perfino il sogno di diventare astronauta per fluttuare in assenza di gravità, dove le gambe non servono. Il piano B è continuare a scrivere per trasmettere quello che si prova a trovarsi circondati dalla guerra, perdere le persone care, ogni sera non sapere se ci si sveglierà vivi la mattina dopo.
Nujeen è stata la prima ragazza con disabilità ad informare ufficialmente il Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulle condizioni delle persone con disabilità durante i conflitti, totalmente invisibili e per questo ancora più fragili.
Ogni mese in Siria 30.000 persone rimangono ferite da bombardamenti e ordigni inesplosi, un milione e mezzo vive con una disabilità permanente, 86.000 hanno subito un’amputazione, un terzo di questi sono bambini. Solo a Idlib, l’ultima roccaforte ribelle, ci sono 175.000 persone con disabilità. Si aggiungono coloro che avevano già una disabilità prima della guerra e che ora sopportano una situazione ancora peggiore.
Sono numeri destinati a crescere che parlano di una lotta per sopravvivere in assenza di servizi di base. Solo nel 2017, hanno calcolato le Nazioni Unite, 175 attacchi hanno colpito presìdi medici e scuole. Meno della metà degli ospedali pubblici è rimasta in funzione, la maggior parte non è attrezzata per offrire un trattamento riabilitativo; in tutto il Paese soltanto due centri, a Damasco e Homs, sono in grado di fornire arti artificiali e ausili. Un accesso così limitato – sommato alle difficoltà logistiche per raggiungere questi servizi – fa sì che molte lesioni curabili diventino menomazioni a lungo termine.
«Capisco che in questo conflitto ci sono molte altre priorità – afferma Nujeen -, ma non si possono dimenticare i bisogni delle persone con disabilità. Non si tratta di carità, sono i nostri diritti!». Ed è ancor più vero e urgente considerando la condizione dell’infanzia.
Ci sono bambini, in Siria, che da quando sono nati hanno conosciuto soltanto distruzione. Mancano acqua e cibo, devono superare traumi inimmaginabili, spesso la morte dei genitori. Il 17% rimane mutilato dalle mine, armi che in ogni Paese ad alta contaminazione esplosiva prendono di mira i più piccoli i quali, curiosi, le toccano, oppure vi camminano sopra distrattamente. Le famiglie, quando sono presenti, non hanno gli strumenti o le capacità per assisterli, sovente mancano le sedie a rotelle. In caso di sfollamento, tutti i rischi del tragitto sono moltiplicati: il traffico stradale, l’attraversamento dei fiumi, l’imbarco sui gommoni, il viaggio di Nujeen lo dimostra. Quando poi non ci sono più familiari ad occuparsene, per questi bambini aumenta il pericolo di sfruttamento e abuso.
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), in collaborazione con Handicap International, fornisce alla popolazione servizi di riabilitazione e supporto psicosociale, per sanare le ferite visibili e invisibili. L’Agenzia dell’ONU per la Salute, inoltre, sta lavorando al ripristino di un centro ad Aleppo, dove fisioterapisti, medici e tecnici ortopedici potranno realizzare protesi su misura.
Essenziale è anche l’educazione al rischio, per rendere le persone consapevoli degli effetti delle mine e alzare il livello di attenzione.
L’Italia sta facendo la sua parte. L’anno scorso un team di professionisti si è recato a Damasco per formare il personale sanitario locale sulla scelta e la personalizzazione delle carrozzine (attualmente in Siria sono disponibili solo sedie a rotelle standard, il che rende molto complicato rispondere in maniera adeguata alle diverse necessità). Gli ausili e i sistemi posturali portati dall’Italia per il corso di formazione sono stati donati al Centro di Riabilitazione della città.
Sempre più persone abbandonano stampelle intagliate in bastoni di legno e ausili improvvisati. Sono perciò timidi passi avanti, ma tanto, tantissimo rimane il lavoro da fare. È fondamentale il sostegno della comunità internazionale ed è importante non abbassare mai la guardia e informare seguendo l’esempio di Nujeen, determinata a fare del suo meglio affinché quello che sta accadendo al popolo siriano non diventi una pagina di storia da sfogliare e passare oltre.