Un incerto futuro lavorativo per la disabilità mentale

di Marino Bottà*
«Per superare le preclusioni soggettive e oggettive frapposte fra le persone con disabilità mentale e il lavoro - scrive Marino Bottà -, è necessario un cambiamento culturale. Bisogna cercare nuove strategie e buone prassi, e promuovere servizi adeguati, in grado di usare un linguaggio comprensibile alle aziende. Serve un aggiornamento culturale che coinvolga tutti (enti preposti, associazioni, imprese, servizi), ricominciando ad agire e uscendo dal disorientamento e dal torpore attuale, senza dimenticare che troppe persone e troppe famiglie attendono ormai da anni una proposta occupazionale»
Persona traina un giovane in un carrettino
Immagine dell’archivio personale di Marino Bottà, gentilmente fornita dall’Autore

«Se non ti comporti bene ti porto alla Casa Rossa»: in valle tutti sapevano cos’era quel fabbricato sul pendio della montagna. Quella era la “casa dei matti”. «Quando entri lì, buttano via la chiave e non esci più».
C’era finito anche mio cugino Giuseppe, che dopo la morte del fratellino, annegato nel fiume sotto una lastra di ghiaccio, aveva cominciato a parlare da solo e a ridere senza alcuna ragione.
Tutti venivano allontanati da casa, poveri e ricchi, i primi nei manicomi i secondi in Istituti di lusso, come quello dove cominciai a lavorare al termine degli studi superiori. Erano figli di banchieri, di armatori, di uomini politici, di nobili russi scappati dal regime comunista ecc. Provenivano da vari Paesi esteri, i giovani che dovevo accudire. Vivevo con loro giorno e notte, per sei giorni la settimana, per dodici mesi all’anno. Era una delle tante “ville dei misteri”, recinta di mura che la isolavano dal resto del borgo sul lago. Dietro quelle mura viveva l’innocente vergogna di famiglie che non potevano mostrare la diversità dei loro figli. Lì, fra gli agi apparenti, si consumava la rimozione del ricordo dei loro figli. Uno solo poteva essere considerato violento, anche se sedato da una manciata di farmaci, gli altri erano solo imbarazzanti presenze per le famiglie. Alcuni potevano vantare rarissime visite e qualche cartolina di località che non avrebbero mai potuto visitare. I più avevano solo il ricordo dei familiari che ogni tanto affioravano dalle loro narrazioni.
Anche quell’istituto chiuse, cosi come la Casa Rossa e tanti altri sparsi in tutta Italia. Le idee libertarie del Sessantotto, e la Legge 180 sortivano i primi risultati positivi.

La quotidiana convivenza, la narrazione dei genitori, dei familiari e dei servizi psichiatrici mi fece capire la drammaticità delle loro vite, e quanto la società li rifiutasse. In seguito, per alcuni decenni, dalla voce rotta come la loro vita, ho ascoltato richieste di aiuto da genitori, mogli e mariti. Ecco perché non posso  accettare chi si approfitta o chi si disinteressa di loro, chi li avversa, chi li sopporta, chi è stanco di sopportarli e chi li criminalizza.
Nessuno ha il diritto di ignorare questi drammi, che stanno diventando sempre più un problema sociale diffuso. Ma cosa può fare il lavoro? È sufficiente ascoltare le persone interessate, parlare con i familiari e gli assistenti sociali,  ascoltare gli psicologi e gli psichiatri che li hanno in cura per capire cosa può il lavoro. Il lavoro è qualità di vita, e spesso, per loro è la vita stessa. Se una comunità li dimentica, è colpevole e autolesionista.

È passato più di mezzo secolo da quei tempi. La Casa Rossa, piena di “matti”, “subnormali” e reduci di guerra, è oramai chiusa da anni. Ora vivono in casa o in istituti moderni, che non vogliono essere chiamati tali. Non parlerei però di integrazione sociale o di inclusone. Spesso vivono fra gli altri una vita parallela; spesso invisibili, a volte oggetto di scherno o temuti da molti. La loro quotidianità è quasi sempre condivisa solo dai familiari e talvolta dai servizi socio sanitari che, con un’ infinità di problemi e contraddizioni, cercano di aiutarli.
Il mondo del lavoro è sempre rimasto lontano da loro. L’articolo 5 della vecchia Legge sul collocamento obbligatorio 482/68 non contemplava fra i destinatari gli invalidi psichici. Solo nel 1992 la Legge 104 estese il diritto al lavoro anche alle persone con patologie mentali. E finalmente la Legge 68 del 12 marzo 1999 stabilì il diritto al lavoro per tutte le persone con disabilità. Nessuno escluso. Il primo articolo di essa, infatti, chiarisce che le norme sul collocamento disabili si applicano anche alle persone affette da disabilità psichica. Purtroppo, però, l’articolo 9, comma 4 stabilisce che «i disabili psichici vengono avviati su richiesta nominativa mediante le convenzioni di cui all’articolo 11». Tradotto in parole semplici, vuol dire che il Collocamento Disabili non può obbligare le aziende ad assumere lavoratori con disabilità psichica; quindi i datori di lavoro possono decidere, in tutta libertà, se includerli o meno fra i potenziali candidati da assumere, ma visti i pregiudizi diffusi, questa categoria risulta di fatto gravemente penalizzata dal punto di vista occupazionale.
La legge, per altro, offre, a chi opera nel campo, di poter disporre di una serie di strumenti di sostegno, poco conosciuti anche dai servizi che se ne occupano, talché solo attraverso un collocamento mirato personalizzato e un accompagnamento al lavoro, supportato da competenti figure professionali, si può raggiungere un risultato positivo. Ma il Collocamento Disabili non è adeguato a svolgere un compito così complesso, pur esistendo effettivamente sul territorio soggetti sociali che, se adeguatamente formati, potrebbero promuovere efficaci azioni inclusive.

Purtroppo non si vedono buone prospettive nel prossimo futuro. Esiste un diffuso disorientamento che colpisce molte Associazioni delle persone con disabilità, in difficoltà nel comprendere le trasformazioni del mondo del lavoro e nell’affrontare il preoccupante silenzio istituzionale. Le stesse persone con disabilità interessate – forse per stanchezza o forse perché la disoccupazione è oramai condivisa da troppi – sono diventate meno esigenti nei confronti del Collocamento Disabili.
Nel frattempo le imprese private hanno reagito alle nuove necessità del mercato, modificando il sistema produttivo e le relazioni aziendali, tramite innovazioni che hanno prodotto un radicale cambiamento negli ambienti produttivi e nei rapporti interpersonali fra imprenditori, lavoratori, sindacati ecc. E ancora, sono cresciute la complessità delle mansioni, l’esigenza di formazione, l’uso di impianti, attrezzature e macchinari tecnologicamente evoluti. Di conseguenza il  mercato del lavoro si è aggiornato, e ricerca figure professionali  in possesso di specifiche competenze tecniche e capacità di adattarle e trasformarle, flessibilità e adattamento ai cambiamenti, disponibilità all’aggiornamento continuo, capacità di lavorare in situazione di stress, problem solving* ecc. Pertanto, le aziende soggette agli obblighi di assunzione ricercano lavoratori cosiddetti “disabili-abili” e richiedono esplicitamente «che non sia psichico». Le notizie di cronaca e l’esperienza negativa fatta da alcune imprese hanno ridotto ulteriormente la disponibilità dei datori di lavoro verso la disabilità psichica.

Il mondo del lavoro diventa sempre più stressante. L’individualismo e la competitività si stanno diffondendo negli ambienti di lavoro e l’incertezza  verso il proprio futuro lavorativo ingenera un’ansia continua. Si deve superare la barriera che si frappone fra l’azienda e la disabilità psichica.
Alcune perplessità evidenziate dalle aziende sono innegabili. Chi vive e opera con loro lo sa; altre, invece, sono pretestuose e servono per giustificare i loro pregiudizi. La strada dell’obbligo, della sensibilità, del dovere sociale non fa che rafforzare i pregiudizi, gli stereotipi e le convinzioni delle imprese. Nel frattempo le persone con disabilità psichica sono sempre più sfiduciate, i familiari sempre più angosciati nel vederle disoccupate, e i servizi testimoni impotenti del sedimentarsi di iscrizioni sempre più “d’annata” a cui non sanno  offrire una proposta lavorativa. È anche vero  che non tutti possono avere un’occupazione attraverso un regolare contratto di lavoro, bisogna però offrire un lavoro a chi può essere collocato, e attivare buone prassi per favorire l’integrazione lavorativa e l’inclusione sociale per tutti gli altri.

E tuttavia, nonostante il trend negativo e le non rosee prospettive future, credo ci sia ancora la possibilità di sostenere l’inclusione lavorativa dei soggetti con disabilità più deboli.
Le problematiche connesse al mercato del lavoro e alla disabilità richiedono una maggiore presa in carico della persona, e superata l’iniziale preclusione del datore di lavoro, è necessario sostenere il percorso di accompagnamento e mantenimento del posto di lavoro, nonché, dove utile, coinvolgere i servizi sociali e socio sanitari interessati. Alle imprese devono inoltre essere forniti tutti i supporti consulenziali necessari all’inserimento e all’ottemperanza degli obblighi, garantendo ad esse un sostegno continuo.
Per fare tutto ciò serve formare il personale dell’azienda e gli operatori dei servizi. Quest’ultimi devono essere aggiornati sul mondo del lavoro, sulle strategie di “marketing della disabilità”, sulle modalità di selezione e presentazione dei candidati in azienda, sulle opportunità di sostegno e sulle agevolazioni economiche disponibili. L’esperienza è lo strumento educativo per eccellenza e la comunicazione fra pari è il miglior veicolo informativo e culturale. È il passaparola fra le aziende lo strumento più efficace per diffondere una cultura inclusiva d’impresa.

Il World Economic Forum, attraverso il Global Risks Report 2019, presenta dati alquanto preoccupanti. Le famiglie costituite da una sola persona a Milano sono pari al 40% della popolazione, le reti sociali si vanno sempre più indebolendo, l’ansia, la solitudine e lo stress aumentano, la depressione è cresciuta del 54% negli ultimi quindi anni.
In Lombardia, l’8,9% della popolazione disoccupata tra  i 35 e i 64 anni denuncia disturbi di ansia e depressione, con la percentuale che sale al 10,8% per gli inattivi, rispetto al 3,5 degli occupati. Aumenta la solitudine e la fatica di vivere e non è certamente con un indennizzo economico che si riuscirà ad affrontare questo grave problema sociale. Solo un’attività, un lavoro, un “tempo impegnato positivamente” può dare benessere psichico e qualità di vita.
Per superare le preclusioni soggettive e oggettive frapposte fra le persone con disabilità mentale e il lavoro, è necessario dunque un cambiamento culturale. Bisogna cercare nuove strategie e buone prassi, e promuovere servizi adeguati, in grado di usare un linguaggio comprensibile alle aziende.
Per riprendere il  percorso di emancipazione e di inclusione, serve un aggiornamento culturale che coinvolga tutti: enti preposti, associazioni, imprese, servizi ecc. È urgente uscire dal disorientamento e dal torpore attuale, per ricominciare ad agire. Non dimentichiamo che troppe persone e troppe famiglie attendono da anni una proposta occupazionale. Non lasciamo che la loro vita e quella delle loro famiglie sia un susseguirsi di ore di attesa e di ansia.

*Per “problem solving” si intende il complesso delle tecniche e delle metodologie necessarie all’analisi di una situazione problematica, allo scopo di individuare e mettere in atto la soluzione migliore.

Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco (marino.botta@umana.it).

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