Razzismo, sessismo, classismo, specismo: tutti ne conosciamo il significato. Ma se vi dico “abilismo”, sapete cosa indica? L’abilismo è l’atteggiamento discriminatorio nei confronti delle persone con disabilità. Deriva dall’inglese ableism – termine più diffuso e usato negli ambienti americani – o disableism -principalmente utilizzato nel territorio britannico -, e ha iniziato a diffondersi come parola alla fine degli Anni Ottanta.
Comprende sia le azioni più eclatanti, come impedire l’accesso a determinati luoghi o informazioni a causa di barriere architettoniche e sensoriali, sia quelle più sottili e infime, ad esempio usare il nome di determinate disabilità per offendere – «Non fare il Down!», «Sono circondato da cerebrolesi!» – o usare termini con connotazioni negative per parlarne («È costretto in carrozzina», «Nonostante la disabilità» ecc.)
Insomma, l’abilismo descrive le persone definendole unicamente per la loro disabilità, ne attribuisce a priori certe caratteristiche, imprigionandole in stereotipi in cui risultano diverse e irrevocabilmente inferiori.
Oggi è difficile che qualcuno venga preso in giro per la disabilità, a differenza ad esempio delle persone grasse, su cui viene riversato il cosiddetto fat-shaming, però la discriminazione c’è, ed è ugualmente orrenda e denigrante.
Quante volte una persona disabile viene definita “eroe” soltanto perché ha una disabilità? Quante volte alle persone con disabilità vengono attribuite caratteristiche preconfezionate, quali essere “guerrieri”, “coraggiosi”, “meravigliosi”, “angeli sofferenti”, «con tanto da insegnare a noi che disabili non siamo?».
Inspiration Porn: la giornalista e attivista per i diritti Stella Young chiama così la rappresentazione delle persone con disabilità come ispirazione unicamente per il fatto di avere una disabilità, oggettivandole a favore delle persone non disabili, e rendendole straordinarie anche nel caso compiano gesti banalmente ordinari, come uscire la sera, studiare o diventare genitori.
Sentirsi dire «complimenti per il coraggio, perché io nelle tue condizioni non riuscirei ad uscire di casa» è umiliante, ve lo posso assicurare. Non è un complimento, ma una microaggressione che offende, fa sentire diversi, sfigati. Il pietismo è talmente palese da diventare soffocante. Allarga ancora di più il gap socialmente costruito tra le persone con e senza disabilità. Fa apparire la stessa disabilità come un ostacolo onnipresente da superare, e non una semplice caratteristica dell’individuo, come l’essere moro, caucasico, africano, donna, uomo, gay o transessuale. Così come frasi «sei bellissima, nonostante la tua disabilità», sono microaggressioni abiliste che non trovano spazio in un dialogo intelligente, e a cui non siamo costrette – o costretti – a sottometterci, rispondendo ed educando la persona in questione, facendo notare che la disabilità non è un fattore che sminuisce. Se siamo considerati esteticamente attraenti, lo siamo per ogni centimetro del nostro corpo!
Tantissime persone stanno lottando contro l’abilismo, mostrando come la disabilità sia una condizione emergente da più fattori, non soltanto quelli biologici, ma anche quelli sociali, comprendenti le discriminazioni nei confronti degli individui aventi diverse funzionalità fisiche, cognitive ed intellettive.
Cosa fare, quindi, per sconfiggere l’abilismo? Riconoscere che siamo tutti esseri umani, che avere una disabilità non rende migliori o peggiori. Riconoscere che una protesi, un bastone o una carrozzina non rende meno stronzi. Sarebbe troppo facile. Lottare per i diritti, per una società inclusiva, dove nessuno si senta discriminato per il fatto di avere abilità diverse. Esigere la parità di opportunità e di trattamento. Considerare le molteplici abilità come normalità nell’eterogeneità delle sfaccettature umane. E chiedere, informarsi, studiare, mettersi nei panni degli altri.
Debellare l’abilismo significa anche debellare l’ignoranza, incrementando il rispetto verso le persone.