Di solito si pensa a chi vive in una situazione “disabilizzante” come a una persona che non può camminare o vivere da sola, né fare ciò che vorrebbe autonomamente, o addirittura che abbia problemi in ambito cognitivo, scolastico. In anni recenti, poi, si pensa al disabile anche come a una persona che abbia difficoltà di relazione sessuale, come si legge su riviste che non approfondiscono bene il tema della sessualità, ma si limitano semplicemente a scrivere che «il sesso in Italia per le persone disabili è ancora un tabù», per poi elencare ogni volta – non senza retorica – i Paesi del Nord Europa come quelli più sensibili a questo problema.
Con buona pace di quanto premesso, vorrei affrontare un altro problema di cui si parla ben poco, ma che ritengo più fondamentale e urgente: quello della relazione tra la persona che vive la disabilità e il suo corpo.
Per capire bene questo passaggio, cerchiamo di tornare indietro, facendo finta di non aver letto nulla sulla vita di un disabile, di non aver proprio idea di cosa sia la disabilità; ma possiamo fare questa operazione soltanto provando a ripensare alla genesi della disabilità.
Quando nasce una persona con disabilità, lui o lei, giorno dopo giorno, anno dopo anno, si rende conto di non essere come gli altri “normodotati”, di essere “diverso” e di non avere un corpo che segue i propri desideri, le proprie aspirazioni. E in tale presa di coscienza cosa avviene? Com’è vissuta? Com’è elaborata psicologicamente?
Quel bambino o quella bambina, poi, se sono accolti, lo saranno in un mondo ovattato, iperprotetto, e saranno considerati, erroneamente, bambini a cui tutto è dovuto, perché si considera che la vita ha tolto loro autonomia. In un altro ipotetico caso, se il bambino non è accettato, ma rifiutato e non accolto, viene gettato in qualche istituto che diverrà per lui una sorta di “ergastolo”.
Provo a prendere in esame il primo caso, quando cioè il bambino viene accolto; accolto da chi, dove? In che mondo? E in che modo? Viene accolto da una madre che potrebbe vivere grandi sensi di colpa e da un padre deluso da una nascita inaspettata. Quel figlio, il figlio di quella coppia, non è il figlio che loro desideravano, che loro volevano; e la madre non si sente una “donna sana”, bensì una donna inadeguata, che sa partorire solo “corpi disabili”.
Non vorrei comunque entrare nel merito – psicologico o storico che sia – della letteratura sulla disabilità e neppure sulla produzione letteraria in campo neuropsicologico della genesi del disabile; vorrei, invece, analizzare il momento della nascita del bambino, il momento in cui il medico comunica a quella coppia che quel loro figlio «non sarà normale, non sarà sano». Qui crolla tutta una famiglia.
Nei secoli scorsi ogni bambino con disabilità che nasceva era considerato come le “stimmate di una colpa”, la conseguenza di qualche peccato commesso dai genitori. E sulla pelle di quel bambino rimaneva impressa la colpa della madre o quella del padre e quel senso di colpa la famiglia se lo trascinava per tutta la vita. Non c’era battesimo o purificazione per quella “mancanza” e il bambino era destinato a viverla per tutta la sua esistenza.
Ci sono voluti anni e decenni per superare questo concetto di colpa, anni e decenni per capire che la disabilità non deriva da un torto da espiare; ma ciò nonostante permane il rischio che una certa cultura continui a proporlo, con il danno grave che ne consegue.
Detto questo, rimane aperta la domanda: come vive il bambino con disabilità invalidante quel suo corpo che non lo segue nel gioco e nella corsa, ma che rimane bloccato, fermo su una sedia?
Nel secondo caso, invece, quando il bambino viene “abbandonato” a crescere e a vivere in una situazione in cui potrebbe sentirsi “figlio di nessuno”, “peso della società”, egli è senza un nome ed è solo come un numero in uno schedario sterile, senza una personalità o forse solo con il desiderio di uscire un giorno da quell’istituto. Quanti desideri si auspica quel corpo di potere vivere?
Pensiamo alla situazione più comune, la più banale: se lui o lei volesse andare al bar, come potrebbe? Chi lo o la porterebbe? La madre? Il padre? L’infermiere dell’istituto? O quella volontaria o volontario?
E ancora: una persona con disabilità e senza nessun grado di autonomia vuole andare a comprare un qualsiasi giornale; non potendo farlo da sola, prova tutto il limite e la costrizione di quel suo corpo, alimentando la rabbia che può portarla fino al rifiuto del proprio sé. Se infatti a una qualsiasi persona “normodotata” venisse il desiderio di andare a comprarsi un giornale, non dovrebbe chiederlo a nessuno. Si alza, guarda quanta moneta ha nel portafoglio, ed esce. Un disabile no. Un disabile deve organizzare tutto. O contare sulla disponibilità, il tempo dell’altro. E organizzare vuol dire: «Ti chiamo, ti chiedo se domani sei libero, concordiamo l’orario sperando che tu non abbia un contrattempo il giorno seguente, e così posso andare a comprarmi il giornale». E il tempo dell’altro diventa così fondamentale per l’autonomia della persona con disabilità. Questa può chiamarsi autonomia? O non è, piuttosto, mortificazione dell’intimo?
Perché allora non possiamo pensare a una nuova pedagogia che instilli la cultura per cui la persona con disabilità può essere indipendente attraverso il suo corpo e può decidere, ogni volta che vuole, di uscire di casa e di farlo da solo? Ovviamente con un progetto assistenziale che lo possa rendere autonomo, senza più pesare sui propri genitori.
Occorre che si prenda coscienza del fatto che se in una famiglia c’è una persona con disabilità, la sua condizione si estende e coinvolge tutto il mondo che lo circonda: così la madre è disabile, il padre è disabile, il fratello è disabile. E questo continuo peso e presenza della persona con disabilità destabilizza tutto il contesto familiare, che sarebbe invece da tutelare con nuove politiche sociali.
D’altro canto abbiamo il corpo del disabile – ovvero la persona con disabilità – con le sue volontà e necessità, sia nel tempo libero, sia nell’usuale quotidianità, costretto ad aspettare la disponibilità dell’altro: è principalmente in questa dimensione dell’attesa che una “nuova pedagogia della disabilità” dovrebbe saper fare luce su tutta la vita e permettere alla persona di poter frequentare gli ambienti voluti.
Spesso, invece, gli unici luoghi di socializzazione offerti sono centri come un RSD anziché un CDD o un CSE [rispettivamente Residenza Sanitaria Disabili, Centro Diurno Disabili e Centro ocio Educativo, N.d.R.] o altre strutture dello stesso tipo, che talvolta smorzano il sapersi progettare della persona con disabilità. Così la si obbliga a frequentare una scuola invece che un’altra, perché in quel Comune c’è la disponibilità di un unico mezzo che la può trasportare solamente in quella sede scolastica; poi a frequentare un’università invece che un’altra solo perché una è più vicina a casa.
Questa “nuova pedagogia” di cui parlo dovrebbe educare la società a dare tutte le possibilità alla persona con disabilità, vale a dire educare la politica alla persona; non è solo necessario avere un Ministero apposito per fare questo, ma occorre anche buon senso sociologico e politico che non c’è o che comunque appare smarrito perché ancora oggi la persona con disabilità è vista come un “peso per la società”.
Penso che non occorra riportare dalla stampa le notizie riguardanti quelle zone del Riminese – e non solo – ove sono sorti siti web di escort che acconsentono di fare sesso anche con le persone con disabilità. Sono sicuro, infatti, che queste ultime non cercano tanto uno sfogo organico, sessuale – per altro legittimo – ma piuttosto un incontro con una persona che sappia leggere lo sguardo e il silenzio dell’altro.
Come scrive benissimo lo psichiatra e psicoterapeuta Marco Rossi: «La persona disabile ricerca non tanto l’accoppiamento sessuale inteso come rapporto intimo completo, quanto la necessità di soddisfare bisogni relazionali e affettivi rimasti senza risposta».
E a questo riguardo non voglio ripetermi, ma osservo che siamo al punto di prima: se una persona con disabilità vuole incontrare un’amica o un amico chi lo accompagna? O chi lo viene a prendere?
Rifletto e mi interrogo proprio su questo incontro tra un lui e una lei: un lui disabile che esce con una lei. Quando un ragazzo “normodotato” esce con una ragazza, si prepara da solo, si fa la doccia, si guarda allo specchio. Un disabile può farlo? Può prepararsi? Chi lo prepara e chi lo lava? Chi lo profuma? E quando l’amica arriva, chi lo mette in macchina? Chi gli chiude la carrozzina? Chi lo sposta? Tutte queste azioni possono sembrare banali, ma banali non sono affatto. Una “nuova pedagogia della disabilità”, dunque, dovrebbe affrontare anche la “sacralità del corpo-libero”.
E per finire, vorrei tornare alla quotidianità di una persona con disabilità e di chi vive con lei. Prima di combattere grandi battaglie o difendere grandi diritti mancati, se non partiamo dal quotidiano, dall’alzarsi dal letto, che è l’azione più semplice per chiunque, ma non per un disabile. Perché per il disabile c’è sempre un prima e un dopo con cui fare i conti. Un prima, dove deve decidere chi lo alza e a che ora lo alza. Un dopo per decidere chi lo lava e a che ora lo lava.
In questa “nuova pedagogia” non c’è un prima e un dopo. Ci dovrebbe essere un’ora, un adesso! Ora mi voglio alzare e adesso mi voglio lavare. Ora voglio vivere e adesso vivo. Ogni azione che voglio in ogni momento la devo poter agire e vivere, e solo in questo modo capire la meraviglia del mio corpo e non più il suo peso.