È vero: all’interno dei servizi residenziali per le persone con disabilità, gli episodi di violenza e di trattamento inumano e degradante sono più frequenti di quanto non si pensi. Ma perché questo avviene? La tentazione è quella di limitarsi a identificare i cattivi, trovare i responsabili e punirli, senza chiedersi: cosa permette, spinge e forse richiede ad un operatore di comportarsi così male.
Noi consideriamo gli episodi di violenza come la punta di un iceberg: il segnale che un certo modo di aiutare le persone con disabilità non funzioni, non sia adeguato ai loro bisogni e ai loro diritti.
Oggi i servizi sociosanitari, anche quelli dove non si verificano gravi episodi di maltrattamento, sono pagati in base ai minuti di assistenza forniti alle persone e sono controllati in base all’appropriatezza delle cure che forniscono. Nel tempo le prestazioni di assistenza e di cura sono state sempre più standardizzate, per tenere sotto controllo i costi ma anche come garanzia di “qualità” del servizio.
Così facendo, però, abbiamo ridotto – almeno da un punto di vista amministrativo – oltre 270.000 persone in Italia a essere considerati semplici “oggetti di assistenza, di cura e di sorveglianza”. Non è stato un buon affare per nessuno, in primis per le persone con disabilità che non vedono riconosciuto il loro diritto di decidere dove e con chi vivere e a non essere escluse dalla società o vittime di segregazione. Non è stato un buon affare nemmeno per gli Enti Gestori e gli operatori del settore, spinti sempre più a rispettare procedure e ritmi di lavoro che non contemplano il tempo dell’ascolto, dell’imprevisto, del dubbio. Negativo anche l’impatto per le casse dello Stato, dati i costi che queste tipologie di servizio richiedono.
Nessuna Legge Nazionale o Regionale prevede l’obbligo (e quindi le risorse) di dare nei fatti in modo concreto e fattivo la possibilità alla persona di una partecipazione attiva alla vita del servizio, nonché la possibilità di esprimere – secondo le modalità comunicative che le sono consentite dalle sue menomazioni e condizioni di salute – i propri desideri e le proprie preferenze. Ma un luogo dove le mie idee e i miei desideri non contano nulla, non può essere chiamata casa: e infatti la chiamiamo “servizio” o “unità di offerta o residenza”. Ma non “casa”.
Nei posti dove si viene solo assistiti, curati e sorvegliati, dove si è meno persone e più oggetti di lavoro, la violenza rischia di essere considerata un’opzione possibile. Non saranno tuttavia delle telecamere, per quanto ben piazzate, a fermarla.
L’antidoto alla violenza non è più sorveglianza, ma più ascolto, non è più sicurezza, ma più apertura, non è più assistenza, ma più compagnia, non è più cura, ma più vita.
La videosorveglianza, nel migliore dei casi, non servirà a nulla, se non a rendere ancora più disumani luoghi a cui già oggi viene chiesto di dedicare più tempo a rispettare procedure e protocolli che a guardare negli occhi le persone.