Sono d’accordo, in linea generale, con quanto scritto su queste stesse pagine da Maria Pia Amico, nell’Opinione intitolata La beffa di avere 65 anni, ove denuncia che «chi arriva ai 65 anni non viene più considerato come “disabile”, ma come “anziano”, quasi che la sua condizione di prima cessasse di colpo e non avesse più bisogno di certi servizi, per altro indispensabili».
È giusto per altro precisare che l’assistenza domiciliare non cessa, trasformandosi o piuttosto passando ad enti gestori con maggiori competenze sugli anziani con disabilità. E tuttavia qualche riflessione in più vorrei farla, a partire da una domanda.
Vogliamo cioè essere considerati al pari di tutti i cittadini e poi chiediamo che i nostri cari con disabilità continuino a frequentare i Centri Diurni? Questi ultimi, infatti, hanno una precisa finalità, che è quella di riabilitare e non dovrebbero certo diventare degli spazi/parcheggio.
Se il progetto riabilitativo ha funzionato, sarebbe meglio vi fosse un’evoluzione verso nuovi progetti idonei alla fascia di età e alle abilità raggiunte. Qualora invece ciò non avvenga, le liste di attesa dei giovani adulti che necessitano di riabilitazione psicomotoria dovranno aspettare la morte naturale o il ritiro di persone ultrasessantacinquenni? E l’omogeneità per fascia di età dei pazienti? Non conta nulla?
Per non parlare del “favore” che si rischia di fare alle lobby dei Centri Diurni ex articolo 26 della Legge 833/78 [istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale, N.d.R.]! Perché? Perché prendono gli stessi soldi dalle Regioni e poi ai sessantacinquenni con disabilità li lasciano lì nei corridoi a non far nulla, se non il minimo indispensabile, forse bere, mangiare e forse pulirli… Provate a far loro delle visite senza avvisare!