L’incidenza e la prevalenza della diagnosi di autismo (F84 dell’ICD 10, la Classificazione Internazionale delle Malattie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) o dello spettro autistico (DSM5, quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) aumentano in tutto il mondo, Italia compresa, e un aumento dovuto alla maggiore attenzione al fenomeno e al miglioramento nella capacità di diagnosticare precocemente la sindrome può spiegare soltanto una parte del fenomeno stesso, mentre il resto è dovuto a una crescita reale.
Negli Stati Uniti, nel 2014, il CDC [Centers for Disease Control and Prevention, ovvero “Centri per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie”, N.d.R.] è arrivato a contare fra i bambini di 8 anni un bimbo con autismo su 59. Numeri, quindi, impressionanti (se ne legga anche su queste stesse pagine, al mio articolo Nuovi dati statistici sull’autismo).
Il Report dell’ISTAT sugli alunni con sostegno nella scuola italiana nel 2016-2017 dava la prevalenza dei Disturbi generalizzati dello sviluppo – dizione usata nel DSM IV, analoga a Disturbi evolutivi globali dello sviluppo psicologico (F84 dell’ICD 10) – allo 0,85%, pari a 38.000 alunni con disturbo generalizzato dello sviluppo fra la prima elementare e la terza media.
Il nuovo più recente Report dell’ISTAT del gennaio scorso, riferito all’anno scolastico 2017-2018, ha individuato invece una prevalenza dello 0,92%, pari a 41.000 alunni. Anche qui, dunque, è stata confermata la tendenza all’aumento rilevata negli anni precedenti: vi è stato, infatti,il raddoppio della percentuale degli alunni con questa disabilità nella scuola primaria, passando da 1,7% nell’anno 1989-1990 al 3,4% dell’anno 2017-2018.
In realtà, l’aumento dei disturbi generalizzati dello sviluppo è molto maggiore di quello del totale degli alunni con sostegno, in particolare nella scuola primaria, dove è passato dal 2,6% al 3,4% fra il 2009-2010 e il 2017-2018 (si veda la voce Sviluppo nella figura 8 del citato Report dell’ISTAT).
L’aumento dei disturbi generalizzati dello sviluppo non è giustificato soltanto da una possibile riclassificazione in questa categoria di altri allievi con sostegno, perché considerando le singole categorie all’interno del ventaglio delle disabilità degli alunni con sostegno, si nota che tutte le categorie legate alla disabilità mentale sono aumentate, ma quella dei disturbi generalizzati dello sviluppo è aumentata più di ogni altra, passando dal 14,7% del totale degli alunni con sostegno al 24,7% nel quadriennio compreso fra il 2013-2014 e il 2017-2018 (si veda la figura 10 del citato Report dell’ISTAT). Inoltre c’è motivo di ritenere che una parte degli allievi con disturbi generalizzati dello sviluppo venga ancora classificata sotto altre categorie, meno “pesanti” per i genitori: disturbi dell’attenzione, disturbi affettivi relazionali. Questa ultima categoria, dalla quale si potrebbe sospettare un più facile travaso, è pure aumentata, seppure di poco, dal 15,8 al 16,0%.
Maria Luisa Scattoni, dell’Osservatorio Nazionale Autismo dell’Istituto Superiore di Sanità, ha recentemente presentato i risultati della sua ricerca attiva sul modello del CDC degli Stati Uniti, riguardante tre campioni di popolazione italiana e avvalendosi come negli USA della collaborazione con la scuola: l’autismo nel 2018 all’età di 7-9 anni è dell’1,3%, pari a un allievo su 77, quasi come negli Stati Uniti.
L’integrazione fra la Scuola, che esegue un primo screening sugli allievi più sospettabili di autismo, e la Sanità, che diagnostica con un’équipe specializzata questi casi selezionati, consente di diagnosticare un numero di casi molto maggiore di quello che si trova nei due Registri di Patologia esistenti (Piemonte ed Emilia Romagna).
Anche la ricerca ASDEU (Autism Spectrum Disorder in European Union) su vari Paesi Europei si svolge in modo analogo, a riprova che l’integrazione fra Scuola e Sanità consente di aumentare l’efficienza dei servizi, anche nel campo dell’epidemiologia.
L’integrazione per la formazione e l’azione
Un fenomeno così imponente come l’autismo richiede la massima attenzione da parte della Pubblica Amministrazione, perché riduce di molto la qualità di vita delle persone che ne soffrono e delle loro famiglie e perché già ora esige un volume ingente di risorse, pari a circa 3 milioni di euro per ogni vita con autismo grave, che si ridurrebbe a un quarto se la persona venisse trattata con i mezzi ora consigliati dalla Linea Guida n. 21 dell’Istituto Superiore di Sanità (Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti) consistente in una delle strategie basate sull’educazione intensiva precoce mediata dai genitori e basata sull’Analisi Applicata del Comportamento (ABA).
Diagnosi precoce prima dei due anni e successivo immediato intervento intensivo per tre-quattro anni all’asilo e alla scuola dell’infanzia: i costi complessivi superano i 40.000 euro all’anno e sono quindi molto elevati, ma possono fare risparmiare milioni nel futuro, aumentando l’efficienza dell’intervento.
Gli insegnanti per il sostegno di tutti i casi di disabilità oggetto del più volte citato Report dell’ISTAT sono circa 156.000 (dato del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca), con un rapporto di 1,5 alunni per insegnante.
Dal dettaglio territoriale emerge una maggiore dotazione di insegnanti per il sostegno nelle Regioni del Mezzogiorno (1,3 alunni per insegnante), dove è minore l’apporto degli educatori, che sono a carico dei Comuni. Gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione sono circa 48.000.
A livello nazionale il rapporto alunno/assistente è pari a 5,1, ma nel Mezzogiorno l’offerta è decisamente inferiore (6,5 alunni ogni assistente). Vi sono alcune Regioni dove questa figura non viene concessa per i disturbi generalizzati dello sviluppo, riservandola alle disabilità sensoriali, come se quelle sull’autonomia e la comunicazione non fossero disabilità dominanti in quei disturbi, anzi generalmente in forma ancora più grave che per i sensoriali.
Sempre nel Report dell’ISTAT viene registrato anche un indice di insoddisfazione: il 6% dei genitori del Sud, infatti, fanno ricorso ai TAR (Tribunali Amministrativi Regionali), per ottenere le ore di sostegno indicate dal PEI (Piano Educativo Individualizzato); nelle altre Regioni questa percentuale si abbassa al 3%, sempre troppo in un Paese avanzato. E tuttavia le percentuali si alzerebbero di molto, se si considerasse che la carenza maggiore non è la quantità di ore, ma la preparazione del personale e l’integrazione dei servizi pubblici fra loro e con i familiari.
Sono rari i ricorsi per ottenere personale specificamente qualificato, particolarmente necessario nei casi più gravi come quelli di autismo, sui quali ci si concentra in questa sede, personale necessario per assumere un ruolo di coordinamento e integrazione dei diversi servizi e della famiglia.
A fronte di tanto impegno da parte delle famiglie italiane e di tante spese pubbliche per insegnanti di sostegno, educatori, assistenti all’autonomia e comunicazione, neuropsichiatri infantili e altre figure sanitarie, i risultati sulla qualità di vita sono stati finora molto scarsi, come ha sottolineato una recente nota della Corte dei Conti.
La mancanza di formazione specifica e di integrazione fra servizi pubblici e famiglie è la causa principale di questo enorme spreco: nessun altro Paese del mondo dedica mediamente agli allievi con autismo 24 ore settimanali di rapporto 1 a 1 con l’operatore, considerando il periodo compreso fra l’inizio della scuola dell’infanzia e la fine della scuola media superiore (Indagine della Fondazione Serono e dell’ANGSA-Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici, condotta dal CENSIS nel 2012).
Negli ultimi cinque anni le ore di sostegno settimanali per tutti gli allievi con sostegno hanno subito un incremento del 14%, 1,7 ore in più a settimana per entrambi gli ordini scolastici.
La citata Linea Guida n. 21 dell’Istituto Superiore di Sanità (Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti) fatica a trovare attuazione, nonostante sia stata riaffermata dalla Legge 134/15 (Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie), dall’articolo 60 dei nuovi LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) del 2017 e dalle Linee di indirizzo della Conferenza Unificata del 2012, aggiornate il 10 maggio 2018.
Le conoscenze sull’autismo degli operatori sono limitate e spesso confliggono proprio con la Linea Guida n. 21, basandosi sulla falsa ipotesi della “madre frigorifero”, propagandata dalla Clinica Tavistock di Londra, che purtroppo ha fatto scuola in Italia fino all’inizio di questo secolo.
A tal proposito, un docente di Sociologia Sanitaria dell’Università di Padova, Ivano Spano, scrive, nel “2019 dopo Cristo”, che «esistono due linee principali di pensiero: per la prima l’autismo ha come origine una causa di tipo psicologico (dunque una dinamica relazionale che è sempre di natura sociale), per la seconda invece una base neurologica». Secondo questo sociologo, dunque, l’autismo sarebbe provocato dalla limitazione del tempo delle poppate, che i pediatri consigliano non dover superare i 20 minuti: il distacco forzato provocherebbe la sensazione di abbandono da parte del bambino e la sua successiva chiusura al mondo…
Occorre quindi un piano di formazione permanente che miri a qualificare insieme i familiari e gli operatori che si occupano di questo problema, perché la premessa di una buona integrazione fra operatori è una formazione che si basa su di un’ipotesi comune e scientificamente fondata, quella cioè consigliata dalla Linea Guida n. 21.
Per le persone con autismo occorre educazione speciale e la quantità di risorse umane disponibili in Italia permette di includere questi allievi in classi comuni e non speciali, purché gli addetti siano formati e coordinati da un solo “direttore d’orchestra”, un coordinatore psicopedagogico o case manager specializzato, che deve seguire il caso anche dopo la fine della scuola, per favorire l’inclusione nella società degli adulti, anche con la figura del job coach [“tutore per il lavoro”, N.d.R.].
L’alta specializzazione del coordinatore è cruciale perché l’educazione abbia buone probabilità di successo, mentre per i genitori e gli operatori che devono eseguire le attività previste nel PEI (Piano Educativo Individualizzato) e poi in quello di vita è già sufficiente una preparazione teorica ridotta di una cinquantina di ore, come avviene negli Stati Uniti per le figure denominate “Tecnici Comportamentali” (RBT).
Su questa linea collaborammo nel 2003 a un progetto della Regione Marche, voluto dagli Assessorati alla Sanità e ai Servizi Sociali, e diretto da Vera Stoppioni e Lucio Cottini, per la formazione comune di familiari, insegnanti, educatori, operatori sanitari e sociali, durata un biennio e decentrata Provincia per Provincia, che vide una grande partecipazione di tutte le categorie interessate.
Chi scrive, poi, ha diretto nel 2006 un progetto biennale di ricerca-azione finanziato dall’assessore regionale alle Politiche Sociali Alessandra Mandarelli per tutto il Lazio, che ha fornito informazione e formazione a tutte le categorie prima citate e anche progetti PEI individuali a oltre cento bambini con relativo coordinatore. La formazione comune di genitori e operatori venne eseguita con Parent Training partecipati anche dagli operatori e con successive ore di corso.
E ancora, sempre chi scrive ha avviato nel 2011, presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, un corso di perfezionamento e master a distanza sull’Analisi Applicata del Comportamento applicata all’autismo che negli anni ha visto cinquemila iscritti fra gli operatori e altrettanti uditori, quasi tutti genitori di figli con autismo.
Successivamente, nell’Anno Accademico 2012-2013 ho per primo dato il via, sempre all’Università di Modena e Reggio Emilia, il Master e Corso di perfezionamento su Autismo e disturbi dello sviluppo: basi teoriche e tecniche d’insegnamento comportamentali, finanziato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, iniziativa che poi è stata ripresa da molte altre Università, dimostrando la necessità di formazione degli operatori della scuola, che di fronte a un allievo con autismo si trovano in grande difficoltà. Non a caso la prima tranche sosteneva Master e Corsi specifici ciascuno su una sola disabilità, mentre la seconda tranche del finanziamento ministeriale si è concentrata soltanto sull’autismo, dato che per le persone con disabilità sensoriale la cultura specifica non manca ed è ben orientata, mentre per la disabilità intellettiva lieve e media l’inclusione stessa nelle classi comuni produce buoni effetti.
Dal canto suo, il Ministero ha iniziato poi il progetto Sportello Autismo, che ha ripreso in diverse Regioni l’esperienza delle scuole di Vicenza e delle convenzioni attuate dai Comuni di Imola e di Bologna con l’Associazione Pane e Cioccolata.
Questo progetto è fondato su tre attività: formazione, supervisione nella classe e sportello di consulenza aperto a insegnanti e familiari. In Emilia Romagna, per un anno scolastico, alcune decine di insegnanti – scelti in base ai titoli fra tutti gli interessati – hanno frequentato un corso di due giorni alla settimana presso la sede dell’Ufficio Scolastico Regionale e poi sono tornati nelle Province di competenza per svolgervi le tre attività indicate.
Infine, il grande piano di formazione permanente del Ministero, in atto dall’Anno Accademico 2018-2019, riguarda dai 100.000 ai 100-140.000 educatori senza laurea, 45.000 docenti di sostegno senza specializzazione e ancora altri Corsi e Master Universitari. Purtroppo esso dimentica la necessità di formazione sull’autismo che viene chiaramente affermata alle pagine 9 e 10 delle citate Linee di Indirizzo sull’Autismo della Conferenza Unificata del 10 maggio 2018 (le si legga a questo link).
L’integrazione fra Agenzie diverse, come Sanità, Scuola, Servizi per il Lavoro e Servizi Sociali è molto difficile da realizzarsi persino dove gli Assessorati Regionali sono unificati. Addirittura è difficile l’integrazione all’interno della stessa Agenzia: ad esempio la Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza è spesso separata dalla Psichiatria Adulti e gli psichiatri tendono a considerare i casi di autismo e di disabilità mentale in genere come non facenti parte della loro competenza.
È questo il motivo per cui nel passaggio alla maggiore età vengono spesso perse le diagnosi di autismo, quasi fosse una patologia esclusivamente infantile. La scarsità di efficacia degli interventi normalmente utilizzati dagli psichiatri (Farmacologia e Psicoterapia Psicodinamica) favorisce l’abbandono dei casi, che vengono delegati al comparto Disabili gravi adulti del Sociosanitario, spesso gestito dal Sociale.
Va qui ricordato come i modelli stranieri prevedano generalmente che i Centri per l’Autismo siano competenti su tutte le età e che attuino interventi sociosanitari integrati. La specializzazione necessaria viene assicurata dalla formazione iniziale e da quella permanente, che si realizza con l’esperienza supervisionata da centri di riferimento di livello superiore su quelli periferici, che si occupano soltanto dell’autismo.
La figura del coordinatore è centrale per l’integrazione dei servizi. Per questo motivo nei Paesi avanzati si richiede che vi sia una certificazione internazionale, che per la strategia maggiormente diffusa nel mondo è il BCBA, concesso dal Behavior Analyst Certification Board, oppure da Dottorati di Ricerca specifici, oppure ancora da certificazioni rilasciate da Centri mondiali di eccellenza come quelli del Early Start Denver Model, strategia intensiva ideata e sperimentata per la prima infanzia.
Nonostante le Linee di Indirizzo del 2012 abbiano previsto la figura del coordinatore psicopedagogico specificamente preparato, che le Linee di Indirizzo del 2018 hanno rinominato come Case Manager, la cultura del nostro Paese fatica ad accettarne l’attuazione, qui come anche nel resto dei servizi pubblici. Si sconta in tal senso il difetto del nostro modello, che richiede molti anni di formazione iniziale e pochissima formazione permanente, dando per scontato che l’abilitazione alla professione sia una garanzia bastante per tutta la carriera.
Soltanto in tempi recenti è stata introdotta la ECM per i sanitari, alla quale stanno facendo seguito gli operatori della scuola e dei servizi sociali e altre categorie di professionisti. Su questo fronte credo si debba procedere per ottenere l’integrazione necessaria, che comporterebbe maggiore efficacia ed efficienza da tutti desiderate.
L’integrazione per la ricerca
Sembra impossibile, ma sull’autismo si è cominciato a fare ricerca soltanto alla fine del Novecento, perché prima molti esperti credevano che questo disturbo fosse un effetto della cosiddetta “madre frigorifero”, che il bambino fosse neurologicamente sano e che volesse chiudersi in se stesso per proteggersi dal resto del mondo.
Appagati da questa vera e propria “bufala”, che colmava un vuoto di conoscenze sul funzionamento del cervello, non si faceva ricerca per conoscere le vere cause degli strani comportamenti del bimbo e si pensava di migliorare la situazione con la psicoterapia familiare della madre e del bambino.
Nel 1969 Leo Kanner aveva pubblicamente smentito l’ipotesi da lui stesso avanzata sulla psicogenesi dell’autismo, ma i suoi epigoni hanno continuato a credere e comportarsi come nulla fosse accaduto.
Bernard Rimland, un genitore psicologo del lavoro, ha demistificato nel 1964 (in Infantile Autism: The Syndrome and Its Implications for a Neural Theory of Behavior) la credenza allora imperante e nel 1997 Richard Pollack, il fratello di una ragazzina morta nella Orthogenic School, ha smascherato Bruno Bettelheim ben prima che gli esperti ne denunciassero le falsità (in The Creation of Doctor B: A Biography of Bruno Bettelheim). Eppure ancora oggi il CNOP (Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi), edita nella serie «Quaderni CNOP» il Quaderno n.3, dal titolo Buone prassi per l’autismo, dove Bettelheim è nominato come psicoterapeuta, titolo usurpato!
La resistenza degli esperti a riconoscere di avere commesso un grave errore ha portato ulteriori danni alla ricerca, poiché Rimland – allora dirigente dell’Associazione Americana dei Genitori – ha creato nel 1960 l’Autism Research Institute, sposando la causa delle medicine alternative consolidata nel 1995 con il suo protocollo Defeat Autism Now! (DAN), dove si affermava di avere trovato varie cause organiche dell’autismo: nel vaccino trivalente, nelle intossicazioni da metalli pesanti, nell’alimentazione con glutine e caseina e in molte altre cause fantasiose, per le quali si proponevano costosi e inefficaci rimedi.
Dal 2011, infine, l’Autism Research Institute ha riconosciuto questi errori e ora si concentra sulla genetica e sulle strategie educative basate sull’ABA. Purtroppo vi sono ancora medici che continuano a difendere il DAN! e a prescriverne le pseudoterapie anche in Italia.
L’integrazione fra genitori ed esperti della medicina ufficiale deve essere attuata anche in Italia, dove c’è disponibilità da parte di alcuni esperti che lavorano nel Servizio Sanitario Nazionale, nelle Università e nel CNR, e che richiedono soltanto le somme necessarie per le spese della ricerca, offrendo il loro lavoro senza costo aggiuntivo rispetto allo stipendio. Su queste basi l’evento del Decennio del Cervello ebbe un grande successo, così come le ricerche sulle Malattie Rare, finanziate in gran parte da Telethon.
Non si tratta soltanto di raccogliere fondi per la ricerca della FIA (Fondazione Italiana per l’Autismo) nella Giornata Mondiale per la Consapevolezza dell’Autismo del 2 Aprile, per colmare almeno in parte la grave carenza dell’impegno dello Stato. Si deve aggiungere un utilizzo reciproco e complementare degli interventi di genitori da una parte, esperti dall’altra.
I genitori sono molto più liberi dei medici di tentare di percorrere strade nuove, in particolare nell’àmbito delle sostanze che non sono farmaci, ma soltanto integratori, alimenti speciali e diete. Negli Stati Uniti già Rimland aveva raccolto il parere di decine di migliaia di genitori che avevano spontaneamente sperimentato sui figli vari tipi di intervento. Prendendo ad esempio quello che aveva dato maggiori risultati positivi e quasi nessun risultato negativo, comunque transitorio, la vitamina B6 e il magnesio, si otteneva una percentuale di soddisfazione ben al di sopra di quanto ci si possa attendere con l’effetto placebo.
Queste sperimentazioni, riprese anche in Francia dal gruppo di Gilbert Lelord, che ne aveva constatata l’efficacia, ma anche la transitorietà degli effetti positivi, richiedevano – secondo la Cochrane Collaboration – nuove sperimentazioni in doppio cieco*.
Quando un individuo risponde bene a un intervento dietetico o farmacologico, andrebbe studiato il suo organismo dal punto di vista biochimico e genetico, per comprendere le ragioni del transitorio successo e della successiva ricaduta. Si dovrebbero integrare le sperimentazioni “fai da te” che i genitori fanno in casa, spinti dalla disperazione, con la ricerca scientifica, che utilizza le indicazioni provenienti dalle impressioni dei genitori, influenzate dall’effetto placebo, da depurare con verifiche sperimentali controllate.
In base alla Legge 134/15 (Disposizioni in materia di diagnosi, cura e abilitazione delle persone con disturbi dello spettro autistico e di assistenza alle famiglie), sono stati stanziati prima 5 poi 10 milioni l’anno: questa legge recita all’articolo 5 (Attività di ricerca): «Il Ministero della salute promuove lo sviluppo di progetti di ricerca riguardanti la conoscenza del disturbo dello spettro autistico e le buone pratiche terapeutiche ed educative». Purtroppo, anche per l’esiguità delle risorse, la conoscenza del disturbo autistico è stata interpretata come attività di rilevazione e studio epidemiologico, pur necessario ma non sufficiente, essendo carente la ricerca di base. L’altra parte del fondo è stata data a gruppi di Regioni che devono utilizzarlo per la ricerca organizzativa sulle buone pratiche.
Si deve ricordare a questo punto la ricerca sull’eziologia dell’autismo, che concerne genetica, epigenetica e rapporti con le comorbidità. Questi studi potrebbero dare indicazioni anche sui fattori di rischio genetici e ambientali e sulla prevenzione. La conoscenza delle cause delle patologie rientra nei diritti del malato e riveste grande importanza per le scelte riproduttive della coppia che ha generato un figlio con autismo e dei loro familiari e per la prevenzione delle patologie ereditarie.
La costituzione di una banca di materiale genetico, già finanziata all’Istituto Superiore di Sanità dall’allora ministra Livia Turco nel 2006, non ha mai visto la realizzazione, che avrebbe potuto consentire l’effettuazione di un centinaio di ricerche genetiche ai ricercatori interessati all’autismo, senza bisogno di effettuare la raccolta del materiale per ogni singola ricerca.
Allo stato attuale delle conoscenze la sola indagine che conduce a una condotta terapeutica è la valutazione funzionale, intesa come valutazione cognitiva, educativa, di autonomie, di abilità comunicative e sociali, in base alla quale si può formulare un progetto abilitativo individualizzato.
La ricerca, inoltre, nel campo della Pedagogia Speciale, esigerebbe maggiore impegno da parte delle Istituzioni, poiché mediante la collaborazione dei familiari potrebbe portare ad importanti avanzamenti, di cui si sente la necessità, anche per cercare di ridurre l’impegno delle ingenti risorse necessarie per la fase intensiva.
E tuttavia l’autismo è una condizione biologica per cui – se la ricerca riuscirà a scoprire i meccanismi biologici che conducono ad esso – si potranno mettere a punto terapie mirate, che agiscano non superficialmente su un singolo sintomo, ma sul complesso dei disturbi, che spesso riguardano non solo l’autismo, ma anche la disabilità mentale in genere, il linguaggio, l’epilessia, l’insonnia, l’ipercinesia e i comportamenti dirompenti. Questa speranza deve tuttavia trovare adeguato impegno di mezzi perché non sia soltanto un’illusione.
*Un esperimento in doppio cieco è un modo per definire un esperimento scientifico dove viene impedito ad alcune delle persone coinvolte di conoscere informazioni che potrebbero portare a effetti di aspettativa consci o inconsci, così da invalidarne i risultati.