Dopo la storia di Patrizia, madre di un giovane con disabilità cognitiva [se ne legga sulle nostre pagine a questo link, N.d.R.], è andato in onda su Rai3 Giuseppe. Todos Santos, secondo documentario della serie Il corpo dell’amore, ideata e prodotta da Deriva Film in collaborazione con la RAI, per la regia di Pietro Balla e Monica Repetta. Una serie che ha affrontato un argomento estremamente complesso e delicato, come la libertà sessuale delle persone con disabilità motoria o cognitiva.
Protagonista del secondo episodio è stato Giuseppe Varchetta, ventiquattrenne attivista con disabilità e omosessuale, napoletano, ma che vive a Bologna da sei anni e che torna nella sua città in occasione del Gay Pride, ove incontra Andrea Giuliano, fotografo trentaseienne costretto a rientrare in Italia dall’Ungheria a seguito delle minacce di morte ricevute come attivista LGBT [Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender, N.d.R.].
«Alla nascita – spiega Giuseppe con la sua parlata dolce e particolare – non mi è arrivato ossigeno al cervello e questa asfissia mi ha portato problemi motori a tutti i muscoli del lato destro».
È a 11 anni che scopre il peso sociale della propria disabilità, quando, a scuola, una professoressa si stupisce per il fatto che lui non abbia l’insegnante di sostegno: «Disabilità uguale omino senza cervello e senza anima…! – commenta amaramente -, da lì in poi il mio carattere aperto è cambiato, perché quando sei un bambino non ti rendi conto che per gli altri sei diverso e che devi fare un percorso di autodeterminazione».
Quell’evento, dunque, è devastante, una pallonata in faccia metaforica che fa più male di quelle reali. E di pallonate Giuseppe se ne intende: «Quando giocavo con il Super Santos, mi chiamavano “Peppe ’a rocc” [“Giuseppe la roccia, N.d.R.], perché prendevo ogni giorno una pallonata in faccia, ma non piangevo mai, e questa durezza di un corpo resistente si è vista dopo, quando ho smesso di giocare con il pallone e ho scoperto di essere un omosessuale con disabilità, a Pianura».
E il Super Santos, il famoso pallone arancione con le bande nere che ha accompagnato la vita di tante generazioni di bambini e non, è diventato uno degli elementi iconografici su cui si è incardinata la narrazione della storia di Giuseppe, che purtroppo si è allargata fuori dal set. Quel pallone che rappresenta la resistenza di “Peppe ’a rocc”, e di tutti noi, è la risposta degli artisti a un gravissimo atto di violenza omofoba che ha travolto la troupe e che ha dato il titolo a questa puntata del Corpo dell’amore, ovvero Giuseppe. Todos Santos.
Al ritorno dalle riprese del Gay Pride di Napoli, infatti, nel quartiere partenopeo di Pianura, dov’era la base logistica della troupe, Andrea Giuliano, protagonista con Giuseppe della puntata, appena sceso dal taxi è stato immobilizzato da un uomo che poi gli ha sbattuto ripetutamente la testa sul cofano del taxi, riempiendolo di epiteti a sfondo omofobo. Il tutto nella più assoluta indifferenza del tassista e nell’impossibilità della regista Monica Repetto di chiamare la Polizia, per avere subìto, mentre era a Napoli, il furto del cellulare.
L’unico a intervenire, cercando di sottrarre Andrea all’energumeno, è stato l’aiutoregista Antonio Demma, che alla fine è anche riuscito ad avvisare la Polizia, mentre la regista cercava di mettere in salvo verso casa Giuseppe, fin troppo esposto data la sua disabilità. Ma Giuseppe, troppo spaventato e impressionato da quella violenza gratuita per avviarsi a piedi, è rientrato in auto, determinando la reazione insofferente del tassista: «Ma questo me lo lasciate qui?». Ovviamente, nessuno ha visto e sentito nulla. Ovviamente, il tassista è stato comunque pagato. E ad Andrea sono toccati dodici giorni di prognosi…
La reazione della troupe, però, è stata rivoluzionaria. A RaRo, apprezzato street artist napolaetano, è stato commissionato un grande murale proprio a Pianura, in Via Montagna Spaccata.
Lo sviluppo della sua creazione è stato ripreso dalle telecamere e inserito nel racconto della puntata in parallelo alla crescita interiore di Giuseppe. L’opera raffigura un grande Super Santos arancione su campo azzurro e rappresenta il potere dell’aggregazione contro le discriminazioni di ogni genere.
Nell’opera di RaRo il Super Santos cambia nome in Todos Santos, “Tutti santi”, per dire che ciascuno ha la propria dignità, il proprio peso in società, la propria sacralità.
È questa la dimensione più profonda che Giuseppe acquisirà nel viaggio da Bologna a Napoli, nello scoprire che le sue radici non affondano nella terra ma dentro il mare. Che le sue gambe vorrebbero essere “coda di pesce”, che la sua parlata strascicata vorrebbe essere il canto melodioso della Sirena; che il suo sesso lo vorrebbe invisibile agli occhi, per non essere giudicato.
Vorrebbe essere un Giuseppe visibile a metà, come la luna della notte del Gay Pride, dell’orgoglio omosessuale. Dell’orgoglio di essere se stesso dopo tanta fatica e tanta angoscia nel costruirsi un’identità.
«Dopo il coming out – racconta – se per te le cose non sono un problema, nemmeno per gli altri lo saranno. Invece con la disabilità…: la bocca aperta, la parlata un po’ strana, l’occhio storto, la camminata un po’ sciancata, mi porta a lottare ogni giorno per far vedere quello che sono veramente. Perché ogni giorno è come se avessi una maschera che mi devo togliere. Perché devi vedere che tu sei il più forte!».
Una persona omosessuale con disabilità subisce sempre una doppia discriminazione, ma quella basata sulla disabilità è più forte: «Perché quando uno ha disabilità le offese gliele fanno davanti perché pensano che tanto sei stupido e non capisci».
Al Gay Pride Giuseppe incontra Andrea, fotografo piemontese trentaseienne minacciato di morte in Ungheria da gruppi neonazisti a causa dei suoi progetti artistici a sostegno della causa LGBT.
Andrea ha portato il suo caso alla Corte di Strasburgo per i diritti umani ed è rientrato in Italia dove conduce un progetto artistico di “destrutturazione del maschio”, per abbattere lo stereotipo dell’uomo forte e mascolino. E un po’ per gioco sottopone Giuseppe a uno shooting fotografico, facendolo divertire e scoprendo la sua ironia.
Andrea, scafato dalla vita, curioso, libero e forte dei suoi strumenti culturali, è qualcuno di cui fidarsi per Giuseppe che ha solo 24 anni e l’aspetto di un fuscello che si piega ma non si spezza. Il Gay Pride è passato ma Giuseppe non è ripartito.
Sembra quasi che le sue suggestioni legate alle Sirene, così di casa a Napoli, adesso prendano forma e che gli eventi lo conducano in un luogo preciso, attraverso una via lungo la quale si manifestano senza parlare personaggi ai quali Giuseppe non fa caso, ma che colpiscono lo spettatore per la loro forte carica simbolica, come creature metà mostri, metà divinità che proteggono il nostro protagonista da lontano.
Lo psicanalista Paolo Valerio, presidente dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere dell’Università Federico II di Napoli, ora in pensione, è l’uomo che raccoglie il legno bruciato in mare. È infatti un artista che con quegli scarti compone opere che restituiscono senso e bellezza alle cose abbandonate, scartate. «Ho pensato a lui – spiega la regista Monica Repetto – per il parallelismo tra gli scarti marini e i corpi imperfetti, e ogni forma di diversità. Paolo Valerio riesce a cogliere immediatamente la bellezza in forme a noi inconsuete e rende loro nuova vita».
C’è anche Maria Rosaria Malapena, l’amica di Andrea alla quale nella sua Campania è stata rifiutata la patente a causa della disabilità motorie. L’ha acquisita nel Lazio e ne ha fatto una bandiera di libertà e determinazione, diventando addirittura una tassista. Sociale.
E c’è, per una frazione di secondo, il guizzo di una grande coda di pesce tra gli scogli. Tutto si muove attorno a Giuseppe con dolcezza, con lentezza, in attesa. Tutto è lì per lui.
Intanto, seguendo Andrea, Giuseppe interviene al Matrimonio della Zeza, un antichissimo evento che si celebra a Pagani, nel Salernitano. È un finto matrimonio fra due uomini, di cui uno vestito da sposa con l’abito, che cambia di anno in anno, donato da una sposa vera.
I riti ci sono tutti, dalla vestizione ai confetti, ai rinfreschi offerti dai cittadini in giro per la città. Segno di una fondamentale e non dichiarata benevolenza nei confronti degli antichi femminielli che va oltre le questioni di genere, le pruderie, la morale. Che è pura umanità.
Giuseppe ha anche recuperato la scatola lasciata nella vecchia casa che contiene piccole cose sue di quando era bambino: i quaderni, le foto, i diari, gli oggetti che lo hanno aiutato con la fisioterapia e che lo legano fortemente alla madre di cui ricorda l’importanza nella sua lotta contro i limiti del corpo.
E nella scatola trova ciò che credeva perduto, un libro che gli aveva regalato suo padre, La pelle di Curzio Malaparte, di cui legge un brano agghiacciante, ma che ci riporta alle Sirene, a dimostrazione che sono sempre esistite.
Sarà la condivisione di questi ricordi a costituire il ponte con Andrea che adesso lo ascolta attentamente e ne coglie empaticamente la sofferenza, la speranza, i sogni, il desiderio delicato.
Giuseppe per Andrea non è più un oggetto d’arte, un corpo da fotografare per un progetto, è una persona da amare qualunque cosa significhi. Gli dà se stesso, attraverso la sua arte matura; ancora grazie alla macchina fotografica, in uno struggente shooting, carico di intenzione, di attenzione, di fiducia, di abbandono. Di pudore.
Il legnoso Giuseppe si scioglie, si dona all’obiettivo, dialoga senza più parole con l’amico come fosse il suo stesso corpo. Che è finalmente nudo, che gioca con le trasparenze dei veli colorati. E che passa dalla posizione fetale a quella seduta, a occhi bassi, il viso teso in un’espressività commovente. Solo il busto emerge dai veli. E sul petto ha voluto scrivere il numero della Legge sull’aborto: 194.
Maria Rosaria – ben altro taxi altro rispetto a quello dell’aggressione alla troupe – si ferma davanti al murale dei Todos Santos e scende. Con andatura incerta raggiunge il muso dell’auto, si siede su di esso e, guardando in camera, ci sorride divertita.