Marco ha 50 anni. Ha una disabilità gravissima, vive a Roma in casa famiglia. Ha imparato a riconoscere, ha imparato a sorridere. Non parla, ma, come canta Niccolò Fabi, «insegna il silenzio in tutte le lingue del mondo».
Non è autonomo in nulla: per mangiare, vestirsi, per andare al bagno serve una persona vicina a lui. È il mestiere faticoso e bellissimo dell’operatore sociale: un factotum capace di “esserci”. È il verbo “essere” che caratterizza il profilo professionale di un buon operatore. Saperci essere. Sempre, in tutte le occasioni.
A febbraio Marco sta male, la febbre sale: 38, poi 39. Analisi: c’è un’infezione. Di corsa in ospedale, dove viene ricoverato. Dovrebbe fare una TAC. Una TAC particolare, una “URO-TAC in sedazione”, ma non esiste ospedale in grado di farla. Marco resta ancora in ospedale, per tanti giorni. Sono necessari accertamenti, flebo, cure.
Ogni giorno, ogni notte, un operatore della casa famiglia dove vive Marco è al suo fianco. Marco non ha un papà né una mamma.
Di chi è la responsabilità della vita di Marco? Di tutta la comunità. Che si chiama città, che si chiama Politica.
Marco è un adulto, ma con i bisogni, quelli primari, di un bambino piccolissimo. A chi verrebbe in mente di dire che un bimbo deve essere lasciato da solo in ospedale? Ve lo immaginate un bambino di 3 anni lasciato da solo in ospedale? Andrebbe contro il buon senso, contro le linee guida, contro la Carta dei Diritti dei Bambini in Ospedale e si potrebbe ipotizzare addirittura il reato di abbandono di incapace (articolo 591 del Codice Penale)!
In tutta Italia dovrebbero essere riconosciuti diritti simili alle persone con disabilità in ospedale. Esistono libri, documenti in cui sono raccolte tutte le buone prassi, redatte da un Comitato Scientifico, composto dai medici più esperti di tutta Italia, che hanno scritto la Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale, adottata in diverse Regioni d’Italia.
Potremmo definirle “passi avanti di civiltà”. E allora perché scriviamo? Perché senza pensarci in un attimo, con poche righe scritte in una convenzione, all’apparenza innocue, la “civiltà” si trasforma in “inciviltà”.
Il Comune di Roma, infatti, senza ascoltare nessuno, ha scritto le nuove convenzioni per le case famiglia, nelle quali si prevede che «in caso di malattia e/o ospedalizzazione, verrà corrisposta una retta pari all’80% per un’assenza fino a 7 giorni, al 50% se l’assenza si protrae fino a 30 giorni, nel caso in cui l’assenza superi i 30 giorni non verrà corrisposta alcuna retta».
Cara Sindaca, caro Comune di Roma, ci sarebbe piaciuto incontrarvi e parlarne. Ci saremmo aspettati una convocazione per la coprogettazione delle nuove regole. Un buon politico, un bravo dirigente ascolta chi ha esperienza sul campo. Poi sceglie, anche in libertà; ci mancherebbe. Ma dopo aver ascoltato. E invece ci arriva una comunicazione in cui si dice: «Se vuoi gestire il servizio firma qui, entro 24 ore» e dove praticamente si dice di abbandonare le persone in ospedale da sole!
Siamo certissimi, Cara Sindaca, che se lei avesse letto queste righe o se ci avesse ascoltati, mai avrebbe scritto una cosa simile. Le avremmo spiegato che quando Marco si è ricoverato, le spese per la casa famiglia sono aumentate, non diminuite! La casa famiglia a malapena ha risparmiato i 3 euro per il pasto, ma il numero di operatori in turno nella casa famiglia stessa è rimasto il medesimo!
Mica il Comune dà i soldi per mettere un operatore per ogni persona con disabilità (magari fosse così!). Ce ne sono tre in tutto (e ne viene pagato meno di uno, ma questa è un’altra storia!). Non si può certo prendere una sciabola e dividere un quarto di operatore e mandarne una parte in ospedale e un’altra parte in casa (una narice, una mano, un orecchio e un ginocchio di qua, la lingua la spalla e i piedi di là…)!
No, in quei tanti giorni, a fianco di Marco c’è stato un operatore in più! Rispetto a quelli necessari in casa. E lo sa, Sindaca, quanto costa tutto questo? Costa esattamente quattro volte l’importo di una singola retta.
Quindi lei avrebbe potuto e dovuto scrivere: «Quando una persona con disabilità si ricovera, per prima cosa un immenso grazie agli operatori che se ne prendono cura, perché non è per nulla facile per nessuno: state facendo un gesto a nome e per conto del Comune, che ho l’onore di rappresentare. Per seconda cosa ecco i denari che occorrono per tutelare questa persona: per ogni giorno di ricovero sarà riconosciuto, oltre alle rette normali, una ulteriore retta pari al quadruplo»!
Ci viene il mal di stomaco. A chi ha pensato, scritto e poi firmato le parole di quella convenzione, vogliamo chiedere: «Siete mai stai in ospedale con un bambino? Avete mai passato notti e giorni dentro un ospedale, al suo fianco, con un magone che vi stringe la gola, con l’orecchio poggiato sul materasso per cogliere se “respira” o no? Con l’angoscia di sapere se si sveglierà? Vi siete mai interrogati di fronte all’infinita bellezza di una persona fragile che dorme in ospedale? Avete mai tenuto la mano a una persona che muore?». No, non pensiamo che lo abbiate mai fatto. Altrimenti una cosa così non l’avreste mai scritta. E non riusciamo a immaginare che qualcuno possa dire: “Non lo sapevo che ci fosse scritta». Non ci si dica che ci attacchiamo a un dettaglio.
Viviamo in un tempo in cui la cura dei dettagli, l’attenzione tra ciò che è “inferno” e ciò che non lo è, come direbbe Calvino, può salvarci. I dettagli… che non sono dettagli.
P.s.: attendiamo, da davvero troppo tempo, che il Comune adegui le tariffe delle case famiglia al costo del lavoro che viene richiesto!
Federsolidarietà Lazio; AGCI Solidarietà Lazio (Associazione Generale Cooperative Italiane); Lega Coopsociali Lazio; Forum del Terzo Settore Lazio; Casa al Plurale (Coordinamento delle Case Famiglia per persone con disabilità, minori in difficoltà e donne con bambini in situazioni di grave fragilità sociale a Roma e nel Lazio). Per informazioni e approfondimenti: info@casaalplurale.org.
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