Il corpo dell’amore è un programma di quattro puntate su “disabilità e sessualità”, andato in onda recentemente su Rai3 [è visionabile in Rai Play a questo link, N.d.R.].
Non mi è piaciuto, proprio a livello di concetti. I punti problematici sono davvero tanti, e alla radice, ed è difficile affrontarli tutti, a meno di non riempire dieci pagine.
Partiamo dal fatto che di quattro docufilm sul tema della disabilità, ben due hanno come protagoniste persone non disabili, e questo fa capire molto sullo sguardo “abile” che pervade l’intero programma. Ogni storia prende il titolo dal nome del protagonista.
Patrizia (madre di Giorgio, uomo disabile)
In questo primo docufilm, la sovradeterminazione che circonda Giorgio, che ha la sindrome di Williams, è a mio parere aberrante. Il ragazzo è pochissimo ascoltato e pochissimo sentiamo la sua voce. Famiglia e amici di Giorgio si riuniscono per discutere della sua sessualità e se sia opportuno o no rivolgersi a una prostituta. Davanti a lui, come se non comprendesse e non parlasse. È la scena che ho fatto più fatica a vedere: Giorgio sposta gli occhi da una persona all’altra e non interviene mai né mai è interpellato.
In seguito Patrizia si accorda con una prostituta per organizzare un incontro con il figlio. Le chiede più volte se sia davvero disponibile, e di pensarci bene. Inoltre si esplicita chiaramente che la ragazza stia facendo un grosso favore a Patrizia, una dinamica, questa, che non si verificherebbe con un cliente non disabile. Passa il messaggio, dunque, che questo “ragazzo” di 32 anni è considerato un cliente pessimo per una prostituta, solo perché è disabile. Ecco, mi sembra materiale sufficiente per produrre parecchia bile.
Giuseppe, uomo disabile
È l’unico docufilm che a mio parere si salva, nel senso che non ci sono “baggianate abiliste” e la voce di Giuseppe è rispettata e non sopraffatta dalle scelte di regia.
È uno spaccato nella vita di un ragazzo disabile e gay, che racconta del bullismo ricevuto a scuola e del suo attivismo.
Mi ha colpito però il messaggio di alcuni amici gay del protagonista, che lo deridono bonariamente perché va al Pride, e dicono scherzosamente che sarebbe meglio se andasse al mare. Diciamo che in questo periodo storico non si sentiva il bisogno di dare spazio a questo “punto di vista”.
Valentina, donna disabile
Qui la protagonista è una donna in carrozzina che viene descritta come intelligente, ironica e briosa, ma che le scelte di regia fanno anche passare per immatura.
Valentina ha una breve relazione con Carlo, ma alcune persone intorno a lei le fanno capire che è meglio lasciarlo perdere. Ci ho trovato un paternalismo che, semplicemente, non sarebbe considerato normale nella vita di una trentaseienne non disabile.
Viene poi messo l’accento sul fatto che a Valentina piace fare varie esperienze anche con lo scopo di “dimenticare” la sua disabilità. Che è ovviamente uno dei punti di vista possibili, ma è come se si sentisse il bisogno di giustificare – da parte della regia – il fatto che lei ha delle relazioni occasionali, con una sessuofobia tutta da TV italiana.
Inoltre, nella sua breve relazione con Carlo c’è molta enfasi sul concetto di “incontro tra corpi diversi”. Mi è parsa eccessiva: porre l’accento su una presunta diversità di corpi mi sembra inquadri Valentina come “altra”, quando in realtà i corpi sono chiaramente tutti diversi.
ANNA, OEAS (“Operatrice all’Emotività, Affettività e Sessualità”) di MATTEO, uomo disabile
Qui c’è davvero un paternalismo tremendo, con le persone non disabili che spiegano le cose da un piedistallo a Matteo che è disabile in carrozzina.
Quest’uomo, sulla quarantina, viene ritratto sempre in casa per tutta la durata del docufilm (sebbene si dica che vive con la madre e che ha due “badanti”, quindi si suppone che possa uscire di casa). Anna, invece, è sempre in movimento attraverso vari luoghi.
Matteo è circondato da un’infantilizzazione incredibile, e numerose sue frasi sono tagliate e lasciate incomplete, tanto da lasciare in sospeso il significato di quello che stava dicendo!
Per concludere, la cosa che più salta all’occhio è come alle persone “più disabili” secondo gli standard (Giorgio, che ha una disabilità intellettiva, e Matteo, che usa una carrozzina e non è autosufficiente) sia stata data meno possibilità di parlare per sé rispetto a Giuseppe, che cammina autonomamente, e Valentina, che usa una carrozzina, ma è piu autonoma.
Chi è più normie (in inglese, “più vicino agli standard corpo/mente”) ha più voce, è incredibile! Giorgio e Matteo non sono protagonisti delle loro storie, e hanno davvero poche occasioni di parlare.
Mi pare poi molto strano che, essendo il tema “sessualità e disabilità”, non si sia scelto di raccontare anche di coppie più consolidate, “miste” (nella storia di Giuseppe una relazione tra il ragazzo disabile e quello non disabile viene solo accennata; Carlo si interessa a un’altra donna di fronte a Valentina e la relazione finisce), oppure formate da due persone con disabilità.
Tutte coppie che avrebbero molto da raccontare, a livello soprattutto di percezioni e pregiudizi altrui. Perché perdere l’occasione?
La narrazione che emerge da questi docufilm mi sembra stereotipata e rassicurante, molto lontana dalle rappresentazioni autentiche di cui avremmo bisogno e che sono ancora scarse in TV e nei media in generale.
In definitiva, quella che ho visto è l’ennesima sfilata di pregiudizi. È stato scelto il dramma, ancora una volta, al posto di una narrazione sincera ed empowering [“che abilita”, N.d.R.]. È stato scelto uno sguardo che rende le persone disabili “Altri”. Uno sguardo esterno, uno sguardo “abile”.
E non dimentichiamo l’evergreen di mettere i sottotitoli solo alle persone disabili che parlano in modo leggermente meno chiaro della media e non, ad esempio, alle persone non disabili che parlano con forte accento regionale. Perché si sa che sono solo le persone disabili a essere incomprensibili! Con buona pace delle persone sorde, poi, che ne potranno fruire solo a pezzi.