Ancora una volta ci si è occupati di disabilità e sessualità. Lo ha fatto Rai3 con la serie intitolata Il corpo dell’amore, composta da quattro documentari andati in onda il venerdì in seconda serata nel mese di giugno scorso [visionabili in Rai Play a questo link, N.d.R.], e ancora una volta l’argomento voleva fare scalpore, quasi scandalo. Per gli “addetti ai lavori”, tuttavia, questi quattro documentari dovrebbero risultare scontati, in quanto non vi è “nulla di nuovo sotto il sole”.
Non vi è nulla, infatti, di quanto proposto, che non si sappia già, come insegnano la filmografia e la letteratura sulla disabilità, che hanno già affrontato ad ampio spettro tale tematica. Ma come sempre, chiedo a chi guarda e a chi legge di provare a ribaltare la questione. E per farlo dobbiamo entrare dentro ogni documentario e “smontarlo”, nel tentativo di comprenderne il senso, anche se per molti il lavoro televisivo risulterà forse lapalissiano.
Riprenderò per ultimo il primo documentario della serie, dal titolo Patrizia, l’ombra della madre.
Il secondo documentario è Giuseppe Todos Santos”, che ci parla di un ragazzo omosessuale con una lieve disabilità fisica, che vive la sua storia affettiva. Mi chiedo cosa ci sia di tanto straordinario per raccontare la storia di un ragazzo disabile omosessuale. Su cosa ha voluto insistere la redazione per fare veramente scalpore? Sul fatto che sia gay? Sul fatto che sia disabile? O sul fatto che sia disabile e in più omosessuale?
Se la televisione oggi ha bisogno di puntare su queste sottolineature per fare audience, questo spaventa perché dimostra che la nostra cultura è ancora indietro; se noi, invece, guardassimo con altri occhi questo documentario, vedremmo soltanto la storia di un ragazzo che vive la propria sessualità con naturalezza e nient’altro. Una naturalezza che rende tutto normale e con la quale la propria sessualità; la si respira per tutti i cinquanta minuti del documentario e fa scomparire la sua disabilità. Di contro, attraverso l’uso sapiente di telecamera, luci e inquadrature, il programma accentua con morbosità solo il suo essere omosessuale e null’altro.
Come affermavo prima, “nulla di nuovo sotto il sole”. Siamo ancora una volta a parlare di disabilità e sessualità. Un binomio, con un vertice in comune, che in questa società non avrà mai un’unione, perché non siamo pronti per trovare ad esso un termine di sintesi, né come disabili, né, tanto meno, come telespettatori. Più seguivo il documentario e più mi rendevo conto che ci allontanavamo da quel vertice.
Tento quindi di analizzare riprese e poetica anche del terzo documentario, intitolato Valentina. La settimana enigmistica.
Qui la protagonista è bene inserita nel mondo del lavoro e nella realtà familiare, anche se a volte – e giustamente – emerge la sua volontà di una vita più indipendente dalla propria famiglia, con le sue amiche e amici. Amiche e amici che la sanno prendere anche in giro, che la sanno pure riprendere, sostenendo che quello che fa non è poi tanto corretto.
Ma che cos’ha Valentina di così tanto speciale da indurre a farne raccontare la storia? Che è su una carrozzina? Che cerca un amore? O che chiede di fare sesso? Il corpo di Valentina è un corpo come tanti altri corpi, pur con la displasia diastrofica.
Mille corpi che cercano tenerezza, calore, affetto, amore, ma non sono su una carrozzina, e quindi non vengono considerati dall’obiettivo della telecamera, non fanno scalpore e non hanno nulla da raccontare: hanno “solo” il loro male di vivere!
Nella storia di Valentina ritrovo una marcia in più: quella di saper vivere le relazioni, quella che io chiamo la “nuova pedagogia della disabilità”. E proprio attraverso quelle relazioni di amicizia, la protagonista fa lentamente scoprire, lungo tutto il documentario, il suo essere donna, il suo essere femmina, il suo sapersi far desiderare.
Credo, però, che non basti solo un documentario per conseguire tale obiettivo; occorre infatti che la società sia aperta e pronta ad accogliere tutte le Valentine del caso, in carrozzina o meno.
Mi soffermo ora sulla quarta e ultima puntata della serie, Anna. La prima volta, nella quale penso si sia raggiunto l’apice di audience televisiva, facendo solo leva sulla morbosità dello spettatore.
Anna è una donna che vuole fare l’“assistente sessuale” e alla sua storia il documentario affianca quella di Matteo, 39 anni, laureato in psicologia, con una paralisi parziale dei muscoli di braccia e gambe. Chi ha scritto il soggetto di questo lavoro non ha inserito Matteo in un contesto relazionale in cui potrebbero esserci i suoi amici d’università; al contrario, ce lo mostra solo e con un gran desiderio di affettività e sessualità. Il mostrarlo sempre solo, nella sua casa, con la sua solitudine come unica cifra relazionale, basterebbe a sollecitare domande. Quella che mi ripropone anche questo documentario – sì, è una domanda vecchia! – è sempre la stessa: «Perché il disabile deve essere educato?».
Chi mi ha letto su queste stesse pagine in precedenti articoli, ormai conosce bene la mia posizione sulla figura dell’OEAS (Operatore/trice all’Emotività, Affettività e Sessualità), termine che già da solo mi fa accapponare la pelle.
Matteo non è forse già stato “educato”? Nel documentario si dice che è laureato in psicologia, e questo non è poco. Con una tale laurea Matteo, in quella sua solitudine, non è educato anche all’affettività? E chi lo può educare, forse Anna piena di travagli e di dubbi? E che sta attraversando l’esperienza della separazione perché lei vorrebbe fare l’Operatrice all’Emotività, Affettività e Sessualità?
Si vedono scene di sesso di Anna, ma mai con Matteo. Con lui si ferma solo a carezze, coccole, si fa vedere semivestita e nulla di più, ma poi? A che serve eccitare il corpo di Matteo, se poi non lo si accompagna ad un orgasmo completo?
Nella vicenda di Matteo è emerso chiaramente un concetto che affermavo da qualche tempo, cioè che l’“assistenza sessuale”, l’OEAS, non può masturbare e non può avere un rapporto coitale. E allora a cosa serve “accendere un vulcano” in una persona con disabilità, per poi lasciare tutta la sua eccitazione lì, ferma, bloccata, chiusa, senza consentirle alcun epilogo?
Concludo con le parole di Matteo che sposano il mio pensiero, ben noto a chi mi conosce. Matteo dice (vado a memoria): «Anna mi ha portato dalla A alla B, ora ci vuole qualcuno che mi sappia portare dalla B alla Z. In questa frase possiamo cogliere il suo pensiero inespresso, che ci parla e ci dice: «Ed ora io, cosa faccio? Ritorno ancora indietro nel mio vuoto nulla?».
Alla fine di questo cortometraggio ritroviamo il protagonista vuoto, dopo una fugace empatia; al contrario di quello di Anna che appaga solo le sue aspirazioni di diventare “assistente sessuale”!
Come detto, riprendo in chiusura il primo documentario relativo a Patrizia. Non mi ci dilungo troppo perché ne ha già dato una bellissima descrizione Simonetta Morelli in un suo articolo pubblicato su queste stesse pagine. Mi soffermo pertanto su una sola scena di tutto il documentario, ovvero quando la madre va dalla prostituta, per definire l’accordo economico in previsione del suo incontro col figlio.
Tutto quel dialogo è pieno di emotività, empatia e di un amore smisurato di madre. Patrizia non si sente più la madre del figlio, perché, nel momento in cui dialoga con la ragazza, si sente la madre di quella prostituta. E sente tutta la violenza che comporta l’essere donna, la violenza del mondo sulla donna; quel dialogo è così intenso che lascia senza fiato lo spettatore, facendogli dimenticare la disabilità del figlio.
Qui posso affermare convintamente che il regista e lo sceneggiatore sono stati bravissimi a ribaltare loro stessi la prospettiva del problema. Intendo dire che il problema non è più la disabilità, perché nell’abbraccio di Patrizia con la ragazza vediamo i bisogni e le solitudini delle due donne che si uniscono; Patrizia, infatti, capisce che il bisogno del figlio non è soltanto fare sesso, ma è piuttosto vivere una relazione vera con chiunque.