Nei giorni scorsi è apparso su «The Independent», quotidiano britannico online, l’interessante articolo intitolato Le donne con disabilità vengono costantemente palpeggiate senza il loro consenso, anche da parte di persone che pensano di aiutarle, a firma di Hannah Mason-Bish, criminologa all’Università del Sussex, direttrice del Centro per gli Studi di Genere di tale Ateneo.
Mason-Bish racconta di come molte donne con disabilità abbiano condiviso con lei le loro storie e le abbiano raccontato come gli abusi quotidiani le inducano a vivere una “vita ristretta” («smaller life») e ad evitare di uscire in pubblico.
Ad esempio Alyssa, donna ipovedente, descrive così la sua frustrazione per essere toccata da estranei senza il suo consenso: «Non c’è niente che io possa fare per costringere le persone a vedermi come un essere umano e rispettare i miei confini. È un inferno!».
La voce di Alyssa fa eco a quella delle numerose intervistate che hanno partecipato a un progetto di ricerca finalizzato a evidenziare come le donne con disabilità sperimentino spesso contatti non consensuali (Private Places, Public Spaces). Finora vi hanno aderito più di sessanta donne con disabilità, che hanno riferito di essere state palpeggiate, prese a pugni, aggredite sessualmente, trascinate sui treni, insultate o spinte per strada.
L’aspetto più comune che emerge da questi racconti è che per le donne con disabilità essere toccate senza il loro consenso è un’esperienza quotidiana.
Avendo studiato da criminologa il tema della violenza negli ultimi quindici anni, Mason-Bish ha constatato che l’emergere del movimento #MeToo e tutte le iniziative promosse per affrontare le molestie di strada sono stati un’opportunità eccezionale per contrastare gli abusi contro le donne, ma anche che le esperienze delle donne con disabilità sono spesso mancate nel dibattito e nella politica pubblica. E questo nonostante i dati mostrino come le donne con disabilità siano soggette a tassi più elevati di molestie sessuali, violenza domestica e aggressioni.
La studiosa rifletteva su questi aspetti, quando ha saputo della campagna denominata Basta chiedere, non afferrare, lanciata dall’attivista cieca Amy Kavanagh. Quotidianamente frustata dal “tocco invadente” che sperimentava quando si trovava in luoghi pubblici, Kavanagh ha iniziato a documentare questi “incidenti” su Twitter. Ora entrambe lavorano assieme ad un progetto di ricerca che ascolta le voci delle donne con disabilità e ne racconta le storie di contatto non consensuale. Attraverso tale iniziativa hanno scoperto che questi comportamenti sono indotti dal fatto che gli estranei ritengono che le donne con disabilità abbiano bisogno di auto. Le intenzioni, dunque, sarebbero buone, ma toccare qualcuno senza permesso può avere gravi conseguenze.
Un’intervistata con un disturbo della funzione nervosa ha affermato che, nella sua situazione, anche il tocco più leggero equivale all’essere presa a pugni o colpita con una mazza. Un’altra, che utilizza la sedia a rotelle, ha raccontato di essere stata forzatamente spinta per strada da uno sconosciuto e di avere temuto di essere stata rapita.
Queste situazioni possono facilmente suscitare l’ostilità di chi si vede rifiutare l’aiuto. Cerise ha descritto un uomo davvero arrabbiato perché lei «non apprezzava il suo aiuto» e l’ha chiamata «cagna ingrata». Amy, invece, ha raccontato di un uomo che minacciava di spingerla in mezzo alla strada.
Il progetto ha anche dimostrato che la “mano amica” dell’estraneo ben intenzionato è solo un modo per toccare le donne con disabilità senza il loro consenso. Sono stati documentati, infatti, casi di palpeggiamento, aggressioni sessuali, richieste sessuali inadeguate e molestie. Donne con disabilità che vengono spinte o allontanate come una sorta di oggetto fastidioso. Ausili per la mobilità presi a calci e danneggiati.
Questi comportamenti mostrano che le persone con disabilità continuano a essere trattate come “un inconveniente”, qualcuno da compatire o di cui abusare. Comprensibilmente, questi contatti indesiderati possono avere un impatto emotivo reale: alcune partecipanti al progetto hanno descritto che questo le induce a vivere una “vita ristretta” ed evitare di uscire in pubblico. Altre escono solo con un partner o un accompagnatore. Denisha dice: «Sono frustrata dalla frequenza con cui le mie parole non vengono ascoltate, mi sento derubata del mio spazio di azione e dell’indipendenza. Il mio corpo è di proprietà pubblica».
Cosa può dunque fare, chi vuole supportare le persone con disabilità, per combattere questi comportamenti? Innanzitutto, se si desidera aiutare una persona con disabilità, è necessario chiederle l’autorizzazione e offrire aiuto in modo appropriato. Individuare la sua sfera personale e rispettare le sue risposte.
In secondo luogo, essere uno spettatore attivo. Molte delle donne del progetto hanno parlato della frustrazione suscitata dalle persone intorno a loro che assistono a contatti indesiderati, ma non fanno nulla al riguardo. Costoro dovrebbero valutare se intervenire, o almeno offrire supporto successivamente. Ciò farebbe sentire alla vittima che qualcuno capisce che quel comportamento è inadeguato.
Tutte le donne con disabilità hanno il diritto di muoversi in pubblico senza la paura di essere toccate. Come ha detto Aisha: «Sono stanca di non potermi muovere attraverso il mondo al mio ritmo, in qualunque modo sia più facile per me. Finché non faccio male a qualcuno, vorrei che la società si astenesse dal farmi del male».
Per approfondire ulteriormente i temi trattati nel presente approfondimento, oltreché fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, si può anche accedere al sito di Informare un’h, alla Sezione La violenza nei confronti delle donne con disabilità, nonché a quella più generale dedicata a Donne con disabilità.