Da infermiera ho sempre parlato della Sanità da una posizione per lo più “di parte”, perché ho affrontato il mondo della cura, con le sue splendide sfumature, dal punto di vista del sanitario, cercando comunque di trasmettere – al di là delle procedure e della standardizzazione degli ammalati di patologie croniche – le emozioni che la sensibilità mi faceva vivere in quel particolare contesto con una determinata persona.
Raccontare una situazione da questa posizione è, spesso, più semplice rispetto al raccontarsi, ovvero mettere a nudo sé stessi, scoperchiando un “vaso di Pandora” ricco di paure, timori per il futuro, ansie, ma anche sentimenti positivi come la stima e, nello specifico, l’orgoglio di avere e vivere a fianco di un uomo, un padre, che nella sua disabilità, con annesse una serie di problematiche psichiatriche, non si arrende ad esse.
Sotto alcuni aspetti, mio padre è paragonabile al pittore Vincent van Gogh: quest’ultimo, fino a poco prima dell’ultimo respiro, ha fatto sì che la malattia mentale non prendesse il sopravvento nella sua arte. Egli l’ha dominata e anche nei momenti di maggior sconforto, ha trovato la forza di impugnare i pennelli e dipingere sulle tele.
Mio padre, in preda ai malesseri generati da questo male oscuro, ha sempre cercato di alzare lo sguardo in alto, tentando di incrociare i miei occhi e dirmi «anche questa volta ce la faremo!», con tutto il dolore che una simile affermazione poteva generare.
Quando lui nacque, Cesena era una piccola cittadina composta prevalentemente da famiglie contadine che passavano la loro esistenza a lavorare nei campi. Mio nonno aveva diversi ettari di terreni sui quali coltivava i frutteti e chi era addetto alla cura degli animali domestici, quali mucche, maiali, galline, polli e conigli, cani e gatti, era mia nonna. La vita contadina era scandita dai ritmi delle stagioni, dai colori e dai frutti che esse custodivano e, gelosamente, donavano a persone umili che, dalla semplicità delle cose e dal rispetto delle tradizioni, avevano capito quanto la vita e gli affetti fossero importanti.
Mio padre nacque circa due anni dopo il matrimonio dei miei nonni; la felicità di essere genitori ben presto svanì e ciò si verificò quando mia nonna si accorse che il figlio, nella crescita, aveva una circonferenza cranica notevolmente maggiore agli altri bambini ed era molto difficile calmarlo quando piangeva.
L’Ospedale di Cesena, allora, non era una grande realtà paragonabile a quella di oggi: il reparto di pediatria era composto da qualche medico e poche infermiere che, per lo più, si occupavano di curare i casi più semplici, mentre, per quello che riguardava la diagnosi e la cura di malattie presumibilmente più gravi, ai genitori veniva consigliato di rivolgersi all’Ospedale di Forlì, molto meglio attrezzato per far fronte alle più diverse problematiche di salute.
Ricordo che mia nonna, quando mi raccontava gli anni travagliati che aveva vissuto, mi disse spesso che partire da Cesena per andare a Forlì non era così semplice: anche se la distanza era solo di 16 chilometri, il viaggio con il mezzo pubblico costava tanto e tutti quei soldi, in casa, non erano disponibili. Per cui, visto che una soluzione al problema economico si rendeva indispensabile, mio nonno si fece prestare il denaro dai fratelli: riuscirono a rivolgersi alla pediatria e i medici optarono per un ricovero, al fine di cercare di capire da quale malattia quel bimbo fosse affetto.
Allora aveva due o tre mesi, non ricordo con esattezza l’età: a mia nonna venne permesso di soggiornare in reparto, mentre mio nonno, per più volte, dovette andare avanti e indietro da Cesena.
I primi esami non mostrarono nulla di preoccupante, ma quando i medici passarono ai test audiometrici, il destino si rivelò in tutta la sua crudeltà: venne diagnosticato il sordomutismo congenito, probabilmente dovuto a una rosolia in gravidanza. Come possiamo ben immaginare, negli Anni Cinquanta del secolo scorso non esisteva il calendario delle visite per le gravide: le donne si rivolgevano al medico nei casi in cui si fossero sentite veramente male e, fino all’ultimo giorno di gestazione, lavoravano.
Il dolore di avere avuto un figlio con disabilità, unitamente alla preoccupazione di farlo vivere in una società che non era pronta ad accogliere e ad accudire persone con queste e altre problematiche, fecero sì che mia nonna, da lì a pochi anni, dovesse compiere delle scelte importanti, che allo stesso tempo le causarono dei traumi che si portò appresso per tutta la vita; all’età di 5 anni, infatti, dovette istituzionalizzare il bambino a Bologna, in una scuola gestita da suore che si sarebbero prese la responsabilità di farlo crescere, insegnandogli a parlare, leggere e scrivere.
Io non so con quali parole poter descrivere al meglio ciò che mia nonna ha vissuto: posso solo dire che più volte l’ho vista piangere, ricordando il passato e il dolore provato.
Il trauma conseguente all’avere partorito un bambino “diverso”, che difficilmente avrebbe potuto avere una vita simile a quella degli altri, che non poteva giocare in campagna con i vicini di casa e imbrattarsi di fango e che, per forza di cose, doveva crescere con altri ragazzini invalidi, fomentando il suo senso di non appartenenza al mondo, tutti questi fattori e tanti altri fecero sì che ella decise, per ben due volte, di abortire.
Dopo la nascita di mio padre, terrorizzata dal susseguirsi degli eventi che le accaddero, non volle più aver altri figli, scelta comandata dalla paura di un’altra invalidità.
Gli anni passarono e fino a quando il mio babbo ne ebbe circa 15, i mesi, le settimane e i giorni si risolsero nel pianto disperato di accompagnare, di lunedì mattina, il figlio a Bologna e, nella felicità del venerdì pomeriggio, di andarlo a prendere e riportarlo a casa.
A dire il vero, il pianto era comune ad entrambi: per mia nonna rappresentava il dolore della separazione e per mio padre il non voler andare in un posto che lo faceva soffrire, a causa della rigidità delle imposizioni e della mancanza di amore, di quell’affetto e di quella tenerezza che solo una madre è in grado di trasmettere.
Al ritorno a casa, c’era sempre pronto un regalo: che fosse un pupazzo costruito con materiali poveri o una fetta in più di pane e burro, la felicità si esprimeva nei gesti semplici e contadini di una volta. Il sorriso di mio padre nel ricevere ciò che più gli piaceva, colmava parzialmente il dolore nel cuore della mia nonna.
Da adolescente, quando gli anni di istituzionalizzazione in collegio finirono, si prospettò il difficile compito della ricerca di un lavoro: uno zio, fratello di mio nonno, aprì con un amico una carrozzeria e si tentò di inserirlo. Il tentativo andò a buon fine: inizialmente, con tanta pazienza, imparò le mansioni più semplici, fino a riuscire a giostrarsi piuttosto bene anche nei lavori più complicati.
Lavorò nella carrozzeria di famiglia per circa dieci anni e quando il Comune di Cesena emanò un bando per l’inserimento lavorativo di giovani con disabilità, mio padre partecipò e lo vinse. Questo fu l’incarico che lo portò fino alla pensione di anzianità.
Quando lavorava in carrozzeria, iniziarono i suoi sbalzi d’umore; poteva succedere che si chiudesse improvvisamente così in se stesso, da avere paura del lavoro e delle persone e da scappare a casa, lasciando incompiuto ciò che stava facendo. In altre circostanze aveva attacchi di rabbia e tendeva a lanciare via gli oggetti che aveva a portata di mano.
Da sporadici, gli episodi divennero sempre più frequenti; prima si verificarono all’esterno dell’ambiente domestico, poi iniziarono a manifestarsi anche nei confronti dei genitori. Mia nonna mi raccontava che alternava momenti in cui si chiudeva in camera sua, ad altri dove poteva diventare anche violento. Fu sorpreso inoltre a dire bugie, a volte per difendere uno sbaglio altrui, altre per giustificare se stesso da gesti che, da solo, riconobbe come essere degli errori.
Appena maggiorenne, vide per la prima volta uno psichiatra: le prime visite si svolsero ad Ancona, poi a Bologna, in seguito a Forlì e, infine, a Cesena.
Ricordo bene i racconti di mia nonna: ad Ancona le venne riferito che aveva «un figlio“matto”» e che era pericoloso lasciarlo libero senza che nessuno lo controllasse, perché c’era il rischio che nel tempo potesse fare seriamente del male a qualcuno. Per cercare di sedare questa presunta “pazzia”, gli vennero prescritti dei farmaci e anche consigliata l’istituzionalizzazione. Come giustificazione a questa presa di posizione, le venne spiegato che lei, il marito, tutta la famiglia e i vicini sarebbero stati molto più tranquilli. In istituto ci sarebbe stato chi si sarebbe preso cura di lui; medici e infermieri avrebbero provveduto al suo benessere psicofisico.
Il solo pensiero di dover rivivere gli anni di internato in collegio, fecero si che mia nonna rifiutasse ogni altra “spiegazione” o “giustificazione”. Se ne andarono.
In seguito, su consiglio del medico di condotta, si recò a Bologna, città che la accolse insieme al figlio nello stesso modo che ad Ancona. La scena era rappresentata da una donna che si esprimeva con un linguaggio semplice e cercava con ogni mezzo di spiegare i sintomi del figlio e i suoi atteggiamenti; dall’altra parte c’era un medico che la osservava, senza capire nulla, senza dare spazio all’ascolto. Per lei non era facile parlare perché sapeva che chi le stava di fronte la giudicava in silenzio e, forse, la disprezzava per avere messo al mondo una creatura “diversa”.
In mezzo a questi due attori c’era mio padre: lo immagino a “seguire” con gli occhi un dibattito dove non riusciva a leggere il labiale di nessuno di loro, perché parlavano troppo velocemente. Si sforzava di comprendere le parole, non necessariamente tutte, solo quelle importanti, per formulare nella sua mente il discorso che la madre e il medico stavano affrontando.
In quel momento, quel ragazzo, cosa avrebbe voluto dire? Nessuno se l’è chiesto. Come avrebbe voluto esprimere i suoi sentimenti, i suoi vuoti interiori e i pensieri che, sicuramente, gli assillavano la mente? L’avrebbe fatto con l’unico mezzo di comunicazione del quale era a conoscenza, ovvero il linguaggio dei segni? No. Nessuno si è posto neanche queste domande.
Sono sicura che, se anche non muoveva le labbra, lui stava parlando e si stava sforzando di chiedere «ma perché non mi ascoltate?». Il problema è che stava utilizzando una forma di comunicazione veramente molto difficile da comprendere e alla quale nessuno dava importanza: il silenzio.
A quei tempi, tutto ciò che egli avrebbe potuto dire, si sarebbe espresso con esso, ma nessuno era “addestrato” a interpretarlo e comprenderlo. Per mio padre quel silenzio e tutto ciò che attorno ad esso più volte si era creato, non era neanche riferibile al binomio “silenzio-assenso”: era molto di più, era un silenzio che urlava, una disperata richiesta di aiuto, era il bisogno di essere ascoltato, perché lui non era diverso da nessuno. Chi era realmente diverso, invece, erano proprio coloro che si facevano chiamare “professionisti”, un titolo che non spettava loro perché, se realmente lo fossero stati, avrebbero capito. Invece non fu così, perché nessuno era dotato di quella delicata sensibilità che permette di ascoltare là dove la parola trova il suo termine.
Ancona come Bologna: ovunque mia nonna cercasse aiuto, otteneva in cambio il sentirsi offesa, frustrata e abbandonata da chi, secondo le sue speranze, avrebbe dovuto porre fine a così tanta sofferenza.
Lei era una donna forte: nonostante il dolore che ne invecchiava precocemente la persona e le lacrime che le bagnavano gli occhi e rigavano il volto, continuò a cercare qualcuno che potesse capire. La sua speranza era di trovare uno specialista che desse a tutta la sua famiglia il supporto necessario per affrontare la salute cagionevole del figlio che, a ruota, stava influendo in maniera negativa anche su quella dei genitori.
La ricerca continuò e la speranza, unita a una profonda fede religiosa, la aiutarono: a Forlì trovò un giovane medico psichiatra che aveva studiato in America e che la accolse in maniera completamente diversa rispetto agli altri. Da come mi venne descritto, era una specie di “Angelo sceso dal cielo”: forse Dio soffriva così tanto nel leggere il dolore nel cuore di una povera contadina, che si sentì obbligato a doverla aiutare e, non a caso, inviò uno dei suoi “Angeli più giovani” affinché, oltre a guidare il loro cammino, diventasse una specie di fratello maggiore per mio padre: questa era la spiegazione che mia nonna mi diede in merito a quell’incontro.
Questo giovane medico la ascoltava quando parlava e fu l’unico a cercare di coinvolgere anche mio padre nella descrizione dei suoi sentimenti: il giovane dottore modificò tutta la terapia in essere fino a quel momento e stabilì degli incontri a cadenza prima settimanale, poi mensile.
Durante le lunghe conversazioni che ho sostenuto con mia nonna, lei mi ha detto che questo medico non utilizzava mai termini come “matto” o “pazzia”; nei casi più estremi, affettuosamente, parlava di “bruciori alla testa” o di “mosche che ronzavano nelle orecchie”. L’umanità che mostrava nei confronti degli ammalati e delle loro famiglie fece sì che divenne così conosciuto da attirare pazienti da ogni dove. Ogni volta che si andava a visita, occorreva fare lunghe file: l’orario dell’appuntamento era sempre indicativo e il più delle volte si usciva dall’incontro parecchie ore dopo essere arrivati.
Grazie a lui e alla fiducia che riusciva a trasmettere, mio padre iniziò a sentirsi meglio; addirittura conobbe quella che sarebbe poi diventata sua moglie, mia madre, anche lei affetta da sordomutismo congenito a causa di una probabile rosolia in gravidanza.
Il giovane medico seguì mio padre per oltre dieci anni, finché non venne trasferito ad un’altra azienda ospedaliera: prima di andarsene, consigliò a tutti i suoi pazienti il nominativo di un collega a Cesena, definito da tanti come un “luminare della psichiatria”.
Gli anni in cui mio padre venne seguito a Forlì furono relativamente sereni: il supporto era costante e sapevamo di poterci rivolgere a quel medico anche solo per dei dubbi. Erano gli anni della mia infanzia e della mia adolescenza: ricordo le crisi e le preoccupazioni che da esse scaturivano, ma erano destinate ad esaurirsi nel breve tempo, complice una figura che consideravamo come un familiare.
Mio padre viveva al pari di tutte le altre persone. Aveva un lavoro che lo gratificava e di cui andava fiero, aveva una moglie e una figlia da crescere e non gli è mai mancato il supporto affettivo ed economico dei genitori che, fino all’ultimo loro respiro, hanno vissuto per lui.
Tante volte, nei miei ricordi di bambina, ci si organizzava per l’escursione domenicale: io e tutta la mia famiglia eravamo soliti passare intere giornate nelle colline vicine a Cesena. A volte si pranzava al ristorante, altre, quando il tempo lo permetteva, organizzavamo i picnic all’aperto.
Ricordo anche quanto mi divertivo: il mio babbo giocava molto con me, ogni cosa andava bene per divertirsi. Mio nonno, classico uomo di un tempo, che in apparenza era “tutto d’un pezzo”, ma sotto sotto aveva un cuore nobile e una dolcezza di sentimenti da far commuovere gli occhi, ogni tanto veniva a giocare: lui preferiva rimanere un po’ in disparte a guardarci e i suoi occhi riflettevano tutto l’amore che il suo cuore conteneva. Era serenamente felice e furono tante le volte dove, senza parole e con pochi gesti, ci faceva capire quanto ci amava.
In casa nostra non esistevano ne stigmi ne pregiudizi: questi erano e dovevano rimanere al di fuori. Vivevamo come una normale famiglia e, come tutte, affetta dalle sue problematiche più o meno gravi.
A metà degli Anni Duemila, poco tempo dopo il suo pensionamento e il trasferimento a Cesena del suo percorso psichiatrico, la normalità alla quale eravamo abituati mutò i suoi connotati. Dopo i primi incontri con il medico referente, infatti, l’insoddisfazione si rese eclatante e ne seguì un decadimento fisico e psicologico che tuttora è presente e dal quale si è riuscito parzialmente a sollevare.
Il supporto emotivo che ci aveva accompagnato per tanti anni sparì nel nulla: ad ogni colloquio la freddezza della relazione era manifesta. Si parlava – e lo si fa ancora, nonostante lo psichiatra di riferimento sia stato cambiato diverse volte a seguito di esigenze ospedaliere – solo di sintomi fisici, senza più considerare la sfera emotiva personale. Quindi siamo entrati nel gioco del “farmaco che placa l’ansia”, della combinazione di princìpi attivi che attenuano le somatizzazioni e apparteniamo a quel circolo vizioso dove, se si presenta un pensiero delirante, è solo colpa della malattia e non di certo di un sentimento scaturito da un fatto o un ricordo realmente successi.
Dalla metà degli Anni Duemila – complice anche l’età dei miei nonni che cresceva – mi sono sentita sempre più sola nella gestione di più patologie, sia fisiche che mentali. Però, almeno inizialmente, questa solitudine che avvertivo era in parte placata dalla possibilità di dialogo e confronto con i nonni. Il 25 dicembre 2007 è deceduta mia nonna, mentre il nonno è mancato il 19 aprile 2008.
In seguito a questi lutti così ravvicinati, dentro di me si era formato un grande vuoto interiore, che solo con l’aiuto del tempo, pian piano, sono riuscita a plasmare: ero rimasta sola ad affrontare le complessità di mio padre e il solo senso di responsabilità nei suoi confronti mi ha aiutato ad affrontare la quotidianità. Se non avessi reagito in questa maniera, ogni tentativo di aiuto nei confronti di mio padre si sarebbe reso inefficace se non controproducente per il suo benessere.
Per quanto la medicina abbia fatto grandi passi in avanti nella scoperta di farmaci per curare le più svariate patologie, ancora è lunga la strada affinché venga riconosciuta a pieno titolo l’importanza della relazione uomo-uomo quale base imprescindibile per un buon esito del percorso terapeutico.
Questo cambio di paradigma, per quanto nella letteratura sia raccomandato, deve scaturire da ognuno di noi. Il malato psichiatrico ha la necessità, in termini assoluti, di essere ascoltato: i suoi bisogni relazionali, i suoi stati emotivi hanno una voce e una lingua ben definita per potersi esprimere.
Basta indugi! Sia il malato che i familiari avvertono ed esprimono almeno due richieste ben precise e definite: primo, non essere lasciati nel silenzio e secondo, che chi presta una professione d’aiuto li sappia ascoltare, interpretare e applicare in soluzioni definite nella realtà.
Chi presta la propria opera nelle professioni d’aiuto lo deve fare con empatia, capacità di ascolto e di comunicazione valide; noi familiari, oltre a queste qualità, aggiungiamo un altro ingrediente, l’amore incondizionato.
Mentre sto scrivendo, mi riaffiorano alla memoria i ricordi di quando preparavo la tesi di laurea e il percorso di counselling che ho svolto: per quello che riguarda la prima, lessi un libro di Fabrizio Paladini, che si chiamava Gli artigli dell’Aquila. Vita, morte e miracoli dal terremoto. Giulio, il protagonista, era una guardia zoofila che, quando l’Aquila venne scossa dal terremoto del 2009, si trovava non molto distante dalla città in pattugliamento notturno per censire i cinghiali. Le forti scosse lo riportarono di corsa a casa e, quando arrivò, la città di Sant’Angelo era quasi rasa al suolo. La macchina dei soccorsi si attivò immediatamente e solo con le prime luci dell’alba, tutti si resero effettivamente conto di ciò che era successo. In preda al dolore, si nascose per piangere: egli affermò che un uomo in divisa non doveva farsi vedere in quello stato. Ma poi si rese conto che non c’era nulla di male se qualcun altro l’avesse visto.
Questo esempio l’ho voluto citare per sottolineare l’importanza del riconoscimento dei propri stati emotivi, come professionisti della relazione d’aiuto: un medico o un infermiere che quotidianamente lavorano a contatto con il disagio mentale non dovrebbero nascondersi dietro al peso delle procedure e delle standardizzazioni da manuale. Il disagio mentale non rende le persone diverse da quello che realmente sono: il malato, quanto il professionista, ha necessità di confronto, di aiuto e di dialogo. Vivere il profondo emotivo della persona sofferente apre le porte a un mondo fatto sì di angoscia e di dolore, ma, se compreso, può insegnare al professionista dei punti di forza dai quali trarre l’energia giusta per aiutare quel malato e tanti altri a superare le difficoltà.
Il celebre psicologo americano Carl Rogers amava definirsi come «un tranquillo rivoluzionario»: per quello che riguarda la mia esperienza, io aggiungo che mi vedo come una «tranquilla guerriera rivoluzionaria». Non posso negare le difficoltà emotive che devo affrontare quando mio padre sta male, però, anche nello sconforto, cerco di guardare avanti e la mia energia deriva dalla sua forza nell’affrontare il dolore.
Mio padre, con i suoi tempi, è in grado di reagire a una depressione che lo vorrebbe forse annientato: si sforza cercando di veicolare tutte le sue energie in pensieri belli, che siano la moglie, i ricordi passati o, semplicemente, il nostro cane che a casa lo aspetta e al quale vuole un bene infinito.
Termino questo raccontarmi sottolineando l’importanza di capire ciò che succede quando le parole non sono più in grado di descrivere uno stato umorale: dobbiamo imparare a saper leggere le espressioni del volto, le posture del corpo e il movimento delle mani. Dobbiamo mettere in gioco noi stessi, senza aver paura di quello che potrà succedere.
Questo consiglio, basato sulla mia esperienza, non riguarda solo i momenti in cui un familiare sta male, a prescindere da qualsiasi malattia di cui possa essere affetto, ma è un’abilità che possiamo applicare in ogni campo delle relazioni sociali.
Infermiera (laurabrunelli81@gmail.com).
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