«Ho smesso di lavorare sull’autismo perché mi sono sempre scontrato con la posizione delle famiglie che vogliono certezze e davanti all’incertezza, che è la chiave della ricerca, oppongono un rifiuto. Comprensibile, ma non è il modo per andare avanti»: queste le amare considerazioni fatte anni addietro dal professor Alberto Panerai, farmacologo dell’Università di Milano.
Il solo modo per fare progredire la medicina trovando terapie che modifichino radicalmente la storia naturale di una patologia o che almeno diano un sollievo significativo ai sintomi più disturbanti è quello di formulare delle ipotesi sulla base della ricerca biologica di base, testare le nuove terapie su modelli animali e, prima di arrivare alla terapia sull’uomo, passare attraverso la sperimentazione randomizzata controllata.
Quando non esiste già una terapia di provata efficacia, il controllo deve avvenire col “placebo”, un finto farmaco, indistinguibile nella formulazione e nell’aspetto da quelli del vero farmaco, ma che – pur non contenendo alcun principio attivo – produce effetti positivi anche nel caso dell’autismo.
La differenza significativa fra i risultati ottenuti nel gruppo trattato col placebo e quelli ottenuti col farmaco vero è la prova dell’efficacia del farmaco.
Chi partecipa a una sperimentazione deve sapere che si tratta appunto di sperimentazione e che quindi non c’è la certezza che il farmaco oggetto dello studio sia efficace. Deve inoltre sapere che potrebbe capitargli di essere inserito nel gruppo che assume soltanto il placebo.
Per quanto riguarda l’autismo, uno dei maggiori ostacoli alla sperimentazione è la concorrenza dei ciarlatani, medici senza scrupoli che propongono “rimedi miracolosi”. Essi sfruttano la fragilità dei genitori e la loro propensione a cedere alle lusinghe, nonché l’effetto placebo, che è proporzionale alla capacità del ciarlatano di suggestionare i genitori.
Questa situazione – insieme all’oggettiva difficoltà insita in una patologia dalle cause molteplici e poco conosciute e agli insuccessi delle poche sperimentazioni fatte in passato – ha fatto da freno a una sperimentazione seria, condotta secondo le regole codificate dalla comunità scientifica internazionale. La lentezza di molti Comitati Etici Italiani – che devono dare il loro parere prima di ogni sperimentazione ufficiale – e il costo delle assicurazioni contro eventuali danni dovuti al farmaco, che soltanto in alcuni casi è coperto dall’assicurazione generale dell’istituzione, complicano ulteriormente il quadro.
Credo sia compito dei cultori della materia – professionisti e associazioni – educare i genitori e, nel caso di persone adulte, gli stessi interessati, a distinguere tra venditori di fumo e ricercatori seri e a comprendere l’importanza della sperimentazione, unica via che può portare a miglioramenti veri e duraturi. Questo non è facile, ma è possibile quando il medico sa dare fiducia e sa comunicare anche nelle situazioni più difficili.
«Debbo con onestà dire che i genitori a cui viene spiegata l’incertezza, ma anche la probabilità di successo insita nella ricerca, accettano consapevolmente e anche volentieri. Trovo che il problema sia invece il dare credito a personaggi con poca coscienza e poca scienza che invece appaiono molto sicuri e autoreferenziali nelle loro spiegazioni».
Chi scrive è Paola Visconti, neuropsichiatra che dal tempo della scuola di specializzazione si dedica all’autismo e che grazie alla meritata fiducia dei genitori, riesce ad ottenere la collaborazione alla ricerca, inducendoli a un consenso davvero informato e non solo formale.
Il guaio è che per molti decenni le proposte di sperimentazioni serie sono state pressoché assenti. Alcune di esse, che sembravano promettenti, si sono fermate alle prime fasi, senza giungere alla fase 3, quella che, se dà esito positivo, precede l’immissione in commercio del farmaco, facendolo diventare non più sperimentale, ma utilizzabile a scopo terapeutico.
Tra le pochissime sperimentazioni attualmente in atto, giunte alla fase 3, c’è lo studio denominato V1ADUCT, che ha superato le prime due fasi e che ora ha come obiettivo quello di estendersi a 350 soggetti. Per arrivare a questa numerosità, lo studio è multicentrico, con centri di arruolamento sparsi in tutto il mondo, Italia compresa (il disegno della sperimentazione è spiegato molto bene a questo link, dove, cliccando in alto a destra, si può trovare anche il testo in italiano).
La ditta Roche, sponsor dello studio, ha stilato anche un rapporto con le spiegazioni del caso e gli indirizzi dei quattro centri italiani con i nomi e i riferimenti dei responsabili.
Dirigente Medico, specialista in Farmacologia Applicata.
Per ulteriori approfondimenti sullo studio V1ADUCT, citato nel presente testo, fare riferimento all’indirizzo: italy.infopazienti@roche.com.
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