Sono poche, in Italia, le esperienze di teatro dedicate a persone che hanno subito traumi cranici, eppure utilizzare la recitazione per “riabilitare” questi pazienti può dare risultati incredibili.
Matteo Corati, regista lirico-teatrale, scenografo, tenore e ballerino, parla di autentici “miracoli” realizzati sotto i suoi occhi nel laboratorio del Centro Cardinal Ferrari di Fontanellato (Parma), struttura del Gruppo Santo Stefano Riabilitazione, uno dei punti di riferimento del Paese per il recupero delle gravi cerebrolesioni in età adulta ed evolutiva.
Per Matteo, che dirige con passione il laboratorio, è cominciato tutto dalla malattia della madre, rimasta sulla sedia a rotelle per l’esito infausto di un intervento chirurgico. Allora è entrato in contatto con la disabilità e ha capito che l’arte, la sua ragione di vita, avrebbe potuto supportare quanti stavano ricostruendo la loro esistenza intorno a nuove difficoltà fisiche e psicologiche.
Ha cominciato nel 2008 e all’inizio era solo un progetto sperimentale, da pionieri; oggi è un’attività collaudata che coinvolge più di cento pazienti all’anno e che vede la partecipazione di medici, psicologi, fisioterapisti e terapisti occupazionali.
Un gruppo scelto di pazienti mette in scena ogni anno uno spettacolo, nel Teatro Comunale di Fontanellato, ormai una tradizione, che tuttavia ogni volta porta sul palco l’emozione di un debutto, perché è sempre una sfida superare ostacoli oggettivi e paure che abitano la mente. Il palcoscenico è un ambiente inconsueto che mette alla prova, un luogo dove sentirsi autonomi e riacquistare il coraggio e l’autostima.
Lasciamo dunque spazio al racconto di Matteo Corati, la storia di una vicenda personale che è diventata un’opportunità per tanti.
Buongiorno Matteo. Ho letto il suo curriculum e mi pare di avere intuito che esprimersi attraverso l’arte è sempre stata per lei un’esigenza, oltreché una passione. Vuole raccontare un po’ di lei ai nostri lettori, prima di entrare nel vivo dell’intervista?
«Saluto lei, e tutti i Lettori di “Superando.it”, ringraziandola per l’opportunità che mi date di far conoscere il mio lavoro con i pazienti affetti da esiti di trauma cranico.
Raccontare di me in breve non è facile, tuttavia ci sono stati due binari principali sui quali mi sono mosso: l’arte figurativa, di cui sono sempre stato un appassionato studioso, e il palcoscenico sul quale sono cresciuto e mi sono fortificato.
Tutto inizia con la mia esperienza, durata venticinque anni, di ballerino di danza classica e contemporanea, poi il diploma di maestro d’arte e di scenografia, la laurea in lettere con specializzazione in istituzioni di regia e drammaturgia, e per finire il canto lirico, il tutto tra l’Italia e la Francia, con esperienze importanti in America e in Germania.
Diciamo che ho voluto esplorare tutti i campi dell’espressività artistica, provandoli su me stesso, un’esigenza interiore, un fuoco desideroso di alimentarsi. Non ultimo volevo capire fino in fondo come guidare, con estrema consapevolezza nel mio lavoro di regista, i cantanti lirici e gli attori».
Quando e come si è avvicinato all’arteterapia?
«Quando avevo 21 anni, mia madre si sottopose a un intervento di routine alla valvola mitrale, ma qualcosa non andò come doveva, e lei entrò in coma per diciassette giorni. Al risveglio gli esiti erano quelli di una tetraparesi spastica ai quattro arti.
Da quel momento la mia vita è cambiata radicalmente; lasciai Roma, la città nella quale abitavo, e ritornai a Parma per prendermi cura della mia famiglia e del grottesco iter giudiziario, o meglio, della battaglia per i diritti di tutti, che si è conclusa vergognosamente proprio quest’anno.
Portai mia madre al Centro Cardinal Ferrari di Fontanellato, per iniziare la riabilitazione e venni in contatto con il mondo della disabilità, delle sue esigenze, dei suoi tempi e della sua necessità di comunicare al mondo.
Negli interminabili momenti nei quali aspettavo che mia madre terminasse le cure, mi si avvicinavano pazienti di diverse età a chiacchierare con me, familiari che mi scaricavano addosso tutte le loro ansie e le loro preoccupazioni ed io, che mi trovavo nella loro stessa situazione, capii che l’arte, che fino ad ora aveva nutrito la mia vita, ora poteva essere d’aiuto a queste persone. Elaborai quindi un progetto di arteterapia e laboratori teatrali, lo sottoposi all’attenzione di Donatella Saviola, coordinatrice del Servizio di Terapia Occupazionale nel Centro, e al Direttore di Struttura dello stesso, e iniziammo una fase di sperimentazione di sei mesi. Al termine i risultati erano stupefacenti; presentammo il tutto alla SIMFER di Roma e da quel momento le attività sono diventate strutturate».
Da quanto tempo collabora con il Centro Cardinal Ferrari di Fontanellato?
«Dal 2008, ed è incredibile il numero di persone straordinarie che si sono interfacciate con la mia vita, così come incredibili sono le tante cose che abbiamo fatto, a partire da una mostra nel Castello di Fontanellato con tutte le opere d’arte dei miei pazienti affiancate da opere di artisti affermati, fino ai ben nove spettacoli teatrali e alle numerose uscite presso i musei più importanti del territorio e alle stagioni teatrali».
I laboratori di teatro con i pazienti si svolgono durante tutto l’anno oppure si “concentrano” in alcuni mesi? E quante persone vi prendono parte mediamente?
«Il laboratorio teatrale si svolge tutto l’anno e all’interno di esso si perseguono finalità riabilitative utilizzando esercizi teatrali; poi ogni anno mettiamo in scena uno spettacolo teatrale sul quale lavorano un gruppo di pazienti scelti che variano da sette a dodici, attraverso un laboratorio specifico presso il Teatro di Fontanellato che dura circa tre mesi, parallelamente a tutte le altre attività riabilitative.
Nel complesso tutte le attività di arteterapia impegnano più di cento pazienti all’anno».
A proposito dello spettacolo che tenete ogni anno al Teatro di Fontanellato, come si svolge la preparazione, quali difficoltà incontrate e come riuscite a superarle?
«La preparazione si svolge in clinica e, come dteto, presso il Teatro di Fontanellato, partendo dagli esercizi basici di teatro fino a quelli più complessi d’improvvisazione immaginativa. Parallelamente a questo si svolge un percorso di preparazione vocale nel quale si affrontano i vari problemi logopedici di pronuncia e articolazione delle parole e, non ultima, l’impostazione della voce per poter recitare senza microfoni. Il tutto coadiuvato da una corretta respirazione diaframmatica, utile sia per l’emissione vocale, libera da sforzi, che per la corretta gestione dell’ansia.
Le difficoltà che s’incontrano sono tante, anche perché ogni paziente racchiude in sé un universo unico e irripetibile da esplorare e valorizzare. Tuttavia le difficoltà più comuni sono di natura comportamentale, trattandosi spesso di traumi frontali, problemi di gestione dell’ansia e della paura, e mnemonici, visto che la maggior parte dei nostri pazienti sono amnesici.
Lo spazio teatrale, gli espedienti teatrali e l’esperienza aiutano a superare tutto, talché negli anni ho visto compiersi sul palcoscenico degli autentici “miracoli” e questo mi rende molto orgoglioso».
Gli attori-pazienti si occupano anche dei testi, dei costumi e della scenografia? E quali altre professionalità sono coinvolte (insegnanti di teatro, fisioterapisti, terapisti occupazionali, medici eccetera)?
«I pazienti vengono coinvolti in tutte le fasi della preparazione teatrale, dall’elaborazione del testo, alla progettazione e realizzazione della scenografia e dei costumi. Un attore professionista, Carlo Ferrari, mi affianca nella pratica laboratoriale, mentre per la realizzazione delle scene e dei costumi vengono coinvolti i terapisti occupazionali e il laboratorio di arteterapia. Dal canto loro, l’équipe medica e gli psicologi di riferimento seguono tutte le fasi, mentre i fisioterapisti ci aiutano a superare i limiti motòri che emergono sul palcoscenico».
L’ultima opera che avete portato in scena, la commedia brillante Meccanico… non vale, ha affrontato il tema della riabilitazione del futuro, caratterizzata dall’uso delle macchine e dei robot. Quale messaggio avete voluto lasciare agli spettatori?
«In questo testo ho voluto creare una situazione grottesca, volutamente caricata, nella quale cerco di attirare l’attenzione rispetto ad un eccessivo utilizzo della tecnologia, sempre più presente nella nostra vita, e alle controindicazioni, come mi piace definirle, che possono emergere, facendo distogliere l’attenzione dal vero fuoco della questione, ovvero quella dynamis, per usare le parole di Aristotele, insita in ognuno di noi. Il teatro fa emergere questo potenziale perché solo l’uomo può capire fino in fondo e valorizzare pienamente, anche attraverso l’ausilio della tecnologia e della robotica, quel potenziale interiore presente in ciascuno di noi, in ciascun paziente, capace di realizzare efficacemente la trasformazione e il cambiamento di stato. Quindi la commedia ci spinge a ragionare fino a che punto la tecnologia applicata alla riabilitazione può ed è lecito che si spinga rispetto a certi obiettivi di valore, e quanto viceversa l’umanizzazione della cura sia più efficace, ma al tempo stesso debba riguadagnare campo».
Nella terapia che utilizza l’arte e il teatro, invece, rimane centrale la componente umana. Quali vantaggi traggono le persone che partecipano al laboratorio?
«Innanzitutto i nostri pazienti si mettono in gioco in una vera e propria sfida con loro stessi che è foriera di risultati sia sul versante conoscitivo che su quello cognitivo, motorio ed emozionale. Si accresce notevolmente l’autostima e, attraverso la pratica di gruppo, creiamo comunanza, facciamo cultura e investiamo nella crescita personale, per contaminare il mondo attraverso tutta questa umanità ricca dell’esperienza di cui si fa testimone».
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