Quello della violenza di genere è un argomento scomodo, con il quale la maggioranza delle persone non ritiene di avere nulla a che spartire. Per costoro i fatti di cronaca rilanciati dai media sono solo brutte storie di “gente altra”. “Altra” perché solitamente non conoscono personalmente i/le protagonisti/e dei fatti di cronaca di cui si narra. “Altra” perché se anche li/le conoscessero si terrebbero comunque alla larga, giacché considerano la violenza una faccenda privata nella quale è meglio non immischiarsi.
Carmela ha due figlie e un passato di povertà e degrado che gliele ha portate via entrambe. Una di esse è stata data in adozione in tenera età, l’altra – di 36 anni e con una disabilità mentale – è stata affidata al padre – oggi settantenne -, con il quale vive nel Barese. Carmela, invece, è ospite di una comunità in Campania, e ha presentato tre denunce (due alla Procura di Trani e una ai Carabinieri del Comune in cui risiede), per notificare gli abusi sessuali subiti da sua figlia con disabilità nella propria abitazione.
«Sapevano tutti ma nessuno ha fatto niente» ha dichiarato a «Il Quotidiano Italiano» (Cronaca di Bari) in un articolo del 9 settembre scorso a firma di Antonio Loconte. «Mia figlia è stata abusata sessualmente nonostante sia una disabile mentale, incapace di intendere e volere, ma la cosa che mi fa più rabbia è sapere che nessuno sia intervenuto, pur essendo a conoscenza che quella fosse una casa degli orrori», spiega Carmela, sconcertata anche dal fatto che sino al giugno scorso – data della denuncia ai Carabinieri – nessuno fosse intervenuto, nemmeno l’amministratore giudiziario (la donna usa questa denominazione anche se, verosimilmente, dovrebbe trattarsi dell’amministratore di sostegno) assegnato alla figlia dal Tribunale di Trani. Amministratore che già in precedenza (a marzo) era stato invitato ad accertare le condizioni della donna con disabilità. Tuttavia gli accertamenti sono stati fatti solo in seguito alla denuncia sporta ai Carabinieri e hanno confermato che la donna ha avuto rapporti sessuali.
Due le ipotesi da verificare circa l’autore delle violenze. Potrebbe essere stato il padre, che dormiva con la figlia in un letto matrimoniale – cosa nota anche agli assistenti sociali, che in un’udienza in Tribunale hanno invitato il padre a interrompere quell’abitudine -, oppure un altro uomo di sessant’anni «introdottosi nell’abitazione con la scusa di eseguire alcuni lavori», e che per anni ha dormito in un letto singolo posto nella stessa stanza in cui dorme la donna abusata. Una figura, quella del sessantenne, «che tutto il vicinato ha visto entrare e uscire dall’abitazione», chiarisce ancora Carmela, mentre si augura «che almeno adesso gli sia stato impedito di frequentare l’abitazione e non si introduca di notte come ha già fatto», e cerca di allontanare un fantasma ancora più spaventoso: «Non voglio neppure pensare possa essere stato il padre a violare il corpo di mia figlia».
Molti aspetti di questa vicenda sono ancora oscuri e potranno essere conosciuti solo dopo la fine delle indagini, ma diversi elementi sono già sufficientemente definiti.
Un primo dato su cui riflettere è che ci sono volute ben tre denunce prima che qualcuno intervenisse. Sotto questo profilo, l’approvazione della Legge 69/19, meglio nota come la norma che ha introdotto il cosiddetto “Codice Rosso”, dovrebbe aver prodotto delle migliorie, poiché prevede una corsia preferenziale per lo svolgimento delle indagini su questo tipo di crimini, e che la vittima debba essere ascoltata dal Magistrato al massimo entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato (un intento apprezzabile, ma che rischia di essere vanificato dalla clausola di invarianza finanziaria prevista dalla stessa norma).
C’è poi un amministratore di sostegno le cui responsabilità sono tutte da accertare. C’è un padre che dorme nello stesso letto con una figlia adulta, e degli assistenti sociali che si limitano ad invitarlo a smettere. C’è un altro uomo che dorme nella stanza con una donna adulta. C’è una mamma che vive lontano, ma che, anche a distanza, intuisce che sta accadendo qualcosa di brutto, e cerca come può di proteggere la figlia.
Solitamente le persone con disabilità, specie quelle che hanno bisogno di maggiori sostegni (e in genere quelle con una disabilità mentale sono tra queste), entrano in contatto con molte figure: familiari, assistenti sociali, figure di tutela, insegnanti, educatori, terapisti, ma anche vicini, negozianti, parroci e altri soggetti presenti nella comunità di residenza. Pertanto è molto improbabile che una persona con disabilità subisca violenza senza che almeno una delle persone che le sta intorno se accorga.
Intervenire nei casi di violenza domestica significa inevitabilmente incidere su equilibri familiari, e spesso sono gli stessi familiari che – non sapendo valutare/affrontare le conseguenze di denunciare un congiunto – preferiscono non intervenire.
Nel caso in questione, gli assistenti sociali avrebbero comunque dovuto trovare un’altra sistemazione per la donna con disabilità perché, anche ipotizzando che non sia stato il padre ad abusare della figlia (cosa tutta da verificare), la circostanza che dormisse nello stesso letto con lei, e consentisse a un altro uomo di dormire nella stessa stanza, mostra chiaramente che non era in grado di prendersi cura di lei. Perché non lo hanno fatto?
Una delle ipotesi che possiamo azzardare è che la convenienza di affidare (o dovremmo più correttamente dire “scaricare”) gli oneri di assistenza ai familiari è talmente collaudata da indurre a minimizzare situazioni relazionali oggettivamente patologiche.
E infine, ci sono gli altri, «sapevano tutti ma nessuno ha fatto niente», ha detto Carmela. Denunciare il sospetto di una violenza significa, per molti/e, esporsi a possibili ritorsioni da parte di un sospettato che, appunto, sarebbe capace di violenza anche nei confronti di chi denuncia.
Inoltre, come già accennato, persiste la convinzione che la violenza domestica sia una faccenda privata. Avere notizia di violenze subite da altri, per molti/e non è un motivo sufficiente ad intervenire (anche solo nel senso di segnalare la cosa ai Carabinieri), perché, si raccontano, in fondo loro sono “solo spettatori”, non stanno facendo niente, non stanno agendo violenza, dunque non sono imputabili di alcun reato.
Nella nostra cultura abbiamo messo a punto un formidabile sistema autoassolutorio capace di sfornare tante rassicuranti e fantasiose motivazioni utili a convincerci che segnalare/denunciare una violenza non sia una buona idea.
Questo tipo di cultura induce chi agisce la violenza di genere a ritenere di poter contare su una buona dose di tolleranza e sulla connivenza di larghi strati della popolazione.
Ancora troppo spesso, quando le donne denunciano pubblicamente una violenza o vengono uccise, sono loro a finire sotto accusa – com’erano vestite? Perché frequentavano l’aggressore? Avevano bevuto o assunto droghe? Che ci faceva in giro a quell’ora? -, come se tali aspetti configurassero una loro corresponsabilità nella violenza subita.
Troppo spesso i femminicidi vengono raccontati come una “forma di amore”, e non come la più estrema forma di negazione della libertà femminile. Molte sopravvissute alla violenza, non tollerando di dover continuare a vivere nella stessa comunità in cui abitano i loro aggressori, finiscono per lasciarla: non è l’aggressore a doverla lasciare (e perché dovrebbe? Nessuno gli fa intendere che sia sgradito), è la vittima che deve andar via per cercare un luogo sicuro, e per sfuggire a chiacchiericci e sguardi compassionevoli.
È evidente che finché l’atteggiamento sarà questo, non abbiamo alcuna speranza di prevenire la violenza. Se non siamo materialmente colpevoli di agire violenza, siamo moralmente responsabili di questa cultura che la tollera, e che, tollerandola, la rende plausibile.
È vero, spesso non possiamo impedire che alcuni episodi di violenza accadano, ma, denunciandoli, possiamo impedire che continuino a protrarsi nel tempo (contenendo così i danni maggiorati che l’esposizione prolungata alla violenza porta con sé), e, altro aspetto non secondario, contribuiamo ad assicurare il colpevole alla giustizia (un esito, questo, per niente scontato).
In realtà nessuno ci obbliga a stare dalla parte dell’aggressore, dunque possiamo sempre scegliere di stare dalla parte della vittima, semplicemente smettendo di raccontarci che la cosa non ci riguarda, che non è un affare nostro, perché, banalmente, non è vero.
Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa).
Per approfondire i temi trattati nel presente testo, oltreché fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, si può anche accedere, nel sito del Centro Informare un’h, alle Sezioni La violenza nei confronti delle donne con disabilità e Donne con disabilità.
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