C’era la Fiera di Sant’Antonio, una festa paesana che coinvolgeva tutta la bassa valle. Un fiume di donne e bambini si accalcavano alle bancarelle, allestite in ogni via. A tratti le voci dei venditori sovrastavano il vociare della gente. Gli uomini, giovani e vecchi, erano nella piazza grande, dove era raccolto il bestiame, le compravendite spesso erano accese, e i mediatori avevano un bel da fare a governare i contendenti.
Voci, colori e dolci variopinti; quando fui attratto da una ragazzina con un viso orientale. Chiesi a mia madre chi fosse. Mi rispose che era «la figlia “mongoloide” del mio professore di disegno». A 15 anni seppi quindi che esistevano anche loro, e che vivevano nascosti in casa o in istituti.
Le convinzioni e le credenze popolari, il senso di colpa e la vergogna dei genitori, prodotti della cultura di quei tempi, non consentivano alcuna forma di integrazione.
Quando poi cominciai a lavorare, li trovai nell’istituto dov’ero stato assunto, e dove loro vivevano ogni giorno dell’anno. Erano affettuosi e sorridenti. Quando mi trasferii a Lecco, nel nascente Laboratorio-Scuola, ne incontrai molti altri.
Grazia viveva con gli anziani genitori in un piccolo paese sotto la Grigna [gruppo montuoso delle Grigne, N.d.R.]. Trascorreva il tempo a guardare la gente passare, seduta su una panca, fuori dalla porta di casa. Quando la invitammo a frequentare la nostra scuola, non riusciva a contenere la contentezza.
Un giorno venne da noi un docente universitario, accompagnato da un gruppo di studenti. Due di questi chiamarono Grazia e le proposero un gioco. Le mostrarono dei cartoncini disegnati: uno rappresentava un triangolo, l’altro un quadrato e le chiesero se fossero uguali. Rispose affermativamente. I due studenti si guardarono e conclusero che non era in grado di discriminare.
Sul tavolo c’era un posacenere. Lo presi. In terra c’erano allineate alcune paia di scarpe da ginnastica. Ne presi una e l’accostai al posacenere, chiedendo a Grazia se fossero uguali. Mi rispose: «Non fare il scemo. Non sono mica uguali». Ci aveva indicato quello che sarebbe diventato l’indirizzo pedagogico del Laboratorio-Scuola.
Affiancammo infatti ai docenti teorici dei docenti pratici, e trasformammo alcune aule in laboratori di sartoria, falegnameria, ceramica, rilegatoria. Successivamente ci procurammo prodotti da assemblare e confezionare (giocattoli, fiori finti, forcine per capelli ecc). Ogni apprendimento scaturiva da un’azione pratica e da comportamenti esperienziali.
In poco tempo, grazie anche al supporto di esperti di rilievo (Ettore Caracciolo, Silvio Ceccato, Marcello Cesa-Bianchi e altri), la struttura di Lecco, nata nel 1972, divenne un modello conosciuto a livello europeo.
Finalmente le “scuole speciali” chiusero i battenti. Il termine “subnormale” venne tradotto in “handicappato” e tutti poterono frequentare la scuola pubblica. Ma non c’era nulla dopo la scuola media.
I giovani con sindrome di Down che incontrai negli anni successivi erano sempre più preparati scolasticamente, ma carenti nelle autonomie personali, sociali e lavorative.
Mauro conosceva l’anatomia e la fisiologia del fegato, che collocava all’interno della spalla sinistra; Elena conosceva la geografia economica della Penisola Scandinava, ma sosteneva che Milano fosse in Svizzera; Fabrizio sapeva tutto sui Promessi Sposi, ma riteneva che le bistecche si cogliessero da particolari alberi. Quante energie e tempo sprecati! Bisognava costruire apprendimenti utili per la loro autonomia e per l’integrazione socio-lavorativa.
I laboratori vennero dunque trasformati in attrezzate botteghe artigiane, dove si formavano apprendisti dell’inclusione. Il rapporto docente-studente diventò quello di artigiano-apprendista. Lavorando con loro imparammo a comprenderne i punti di forza, le debolezze, e a condividerne i sogni, i desideri e i bisogni.
Nel 1991 concordai di costituire un servizio ad hoc per inserirli nel mondo del lavoro. Il percorso era già tracciato. Avevano i prerequisiti per lavorare in azienda; ora bisognava trovare le imprese disponibili, e procedere con la formazione in situazione e il monitoraggio. Eravamo in pieno regime di collocamento obbligatorio (Legge 482/68 e ogni procedura era rigidamente stabilita. Con la presenza dei nostri allievi, le aziende non assolvevano agli obblighi di legge; si doveva pertanto avviare al lavoro solo chi aveva un effettivo potenziale lavorativo. Chi non poteva accedere ad un lavoro regolare veniva indirizzato verso le prime cooperative sociali o in strutture socio educative, occupazionali, formative che si stavano pure costituendo.
Un giorno si presentò il preside di una scuola media superiore, noto personaggio politico nazionale. Mi disse che suo figlio con sindrome di Down lavorava in una fabbrica metalmeccanica del territorio e che l’azienda voleva dimetterlo. Mi recai in ditta per comprendere la situazione.
Il dirigente mi accompagnò al secondo piano, in fondo a un lungo corridoio. In un ufficio, solo, seduto a una scrivania, trovai il giovane impegnato a fare un disegno con i pastelli a cera. Il manager mi mostrò una grossa cartelletta piena di disegni. «Questo è il lavoro svolto nell’ultimo mese – mi disse-. Purtroppo non è in grado di fare niente d’altro!». Chiesi allora di restare un momento con lui. Mi disse che voleva andare a lavorare in una cooperativa, dove c’erano i suoi amici. Suggerii ai genitori di ritirarlo dall’azienda.
Ne ho collocati tanti, assunti in aziende pubbliche e private e tutti confermati a tempo indeterminato. Il percorso di accompagnamento al lavoro ha sempre richiesto un tirocinio, un periodo più o meno lungo di affiancamento, di formazione in situazione e di monitoraggio postassuntivo. Tutto questo mi ha consentito di raggiungere l’obiettivo occupazionale, ma soprattutto il successo era riconducibile al fatto che tutti avevano una potenzialità lavorativa e una forte carica motivazionale.
Non tutti i giovani con sindrome di Down, però, possono accedere al mondo del lavoro e avere un regolare rapporto contrattuale. Alcuni mancano delle capacità necessarie, altri non ne sentono alcun bisogno, altri ancora richiedono o necessitano di risposte educative, riabilitative, formative ecc. A questi si aggiungono quelli che non vogliono lavorare, pur avendone le potenzialità, e altri ancora che non avendo le capacità, desiderano ugualmente lavorare.
In questi casi è moralmente e professionalmente necessario trovare un ambito dove possano essere impegnati in attività gratificanti e coerenti con i loro interessi. Gli uomini non sono uno uguale all’altro. Non dimentichiamo che qualsiasi progetto inclusivo deve partire dalla persona interessata, non dalle esigenze di altri, familiari, servizi, enti ecc. La centralità dell’inserimento sta nella persona e nel suo diritto a una qualità di vita coerente ai suoi bisogni. Per questo il progetto inclusivo deve essere individualizzato e rispondere ai reali bisogni della persona.
Per perseguire l’inserimento in un’impresa privata o pubblica, ci si può avvalere di buone prassi, da tempo efficacemente utilizzate in alcune Province: convenzioni con le cooperative sociali (articolo 14 del Decreto Legislativo 276/03), Isole Formative, Adozioni Lavorative a Distanza [di entrambi questi strumenti si legga sulle nostre pagine a questo e a questo link, N.d.R.] e altre ancora, evitando così, dove è possibile, di riproporre o creare àmbiti speciali paralavorativi.
Dico questo in quanto, per supplire alle carenze dello Stato e della Società in generale, stanno sorgendo contesti di lavoro dove sono impiegate solo persone con disabilità appartenenti a specifiche categorie di disabilità. Dove però non ci sono possibili alternative, è utile cercare una forte integrazione e relazione con gli altri, per evitare così di riproporre contesti speciali emarginanti.
E in tutti i casi è comunque necessario costruire un percorso di accompagnamento al lavoro, attraverso un inserimento mirato, oculato e soprattutto rispettoso della persona. Solo così si migliora la sua qualità di vita. Questo vale per tutti, disabili e non!
Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco (marino.botta@umana.it).
Articolo raccolto e pubblicato in relazione al progetto “JobLab – laboratori, percorsi e comunità di pratica per l’occupabilità e l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità” (Progetto finanziato ai sensi dell’articolo 72 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117. Annualità 2017.)
Articoli Correlati
- Sordocecità, la rivoluzione inclusiva delle donne Julia Brace, Laura Bridgman, Helen Keller, Sabina Santilli. E poi Anne Sullivan. Le prime quattro erano donne sordocieche, la quinta era “soltanto” quasi completamente cieca, ma non si può parlare…
- Quando Don Pasquale divenne uno come tutti gli altri Piccola e grande Storia si intrecciano, in questo bel racconto di vita, che parte dagli anni Sessanta, per arrivare ai giorni nostri, con la consapevolezza che «i diritti non sono…
- Abbiamo "toccato con mano" la Tunisia È stato uno dei più apprezzati eventi cultural-sportivo-turistici fra quelli organizzati in 40 anni dall’ADV (Associazione Disabili Visivi). L’hanno chiamata “Settimana Gialla”, per richiamare il colore delle sabbie del Sahara,…