Parlare con le parole giuste non è uno schiribizzo di alcuni fissati del lessico. Se io dico a una persona che è un “negro”, faccio pensare qualcosa di diverso che se dico che è un “nero”, ovvero una persona nera. Le parole, con i concetti che intendono, qualche volta in maniera sottintesa, possono fare male, mettiamocelo in testa.
Ne ho parlato qualche tempo fa all’Università Cattolica di Milano, durante l’incontro Disabilità, informare con le parole giuste, valido come corso di aggiornamento per giornalisti, ma aperto a tutti [se ne legga la presentazione sulle nostre pagine, N.d.R.]. Beh, mi è capitata un’esperienza singolare.
Non era la prima volta che tenevo una lezione sul linguaggio della disabilità nei corsi di aggiornamento per giornalisti. Per merito di Alessia Bottone, brava collega veneta, abbiamo lavorato in questo senso a Verona e lavoreremo all’Università La Sapienza di Roma.
Apprezzo l’impegno di questa giovane giornalista per portare la cultura della precisione linguistica contro l’abilismo nell’àmbito dei media, perché noi giornalisti siamo fra i primi ingranaggi a muoversi nel meccanismo che dà luogo all’inclusione sociale. Il processo di diffusione della mentalità dell’inclusione ricade su tutta la comunità, coinvolgendo primariamente chi fa comunicazione, perché senza un uso corretto della comunicazione, non si può educare la società all’accoglienza.
Detto questo, mi limito qui a citare i relatori di quell’incontro, cioè Francesca Bonsi, disability manager in Unicredit, Marisa Marraffino, avvocato, Consuelo Battistelli, diversity engagement partner IBM Italia e il filosofo Adriano Pessina, dell’Ateneo ospitante, moderati, con Alessia Bottone, da Lucio Bussi, giornalista del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti.
Prima di dire dell’aneddoto per cui nasce questa mia riflessione, un breve sunto del mio intervento può servire a rendere l’episodio più comprensibile.
Sono partito spiegando che cosa sia la disabilità, cioè che essa sta nel rapporto fra persona con le proprie condizioni di salute e ambiente circostante, generandosi quando questo rapporto è sfavorevole.
Poi alcuni esempi di personaggi celebri con disabilità, da Tutankhamon a Stalin, per un veloce excursus storico a spiegare che la disabilità è con noi da sempre e che non sempre si è sviluppata come pensiamo, cioè che non sempre in passato le persone con disabilità erano completamente emarginate. Un’emarginazione, questa, che prende il nome di abilismo, termine nato pochi decenni fa a designare la discriminazione verso le persone con disabilità e che si attua anche attraverso il linguaggio.
Un linguaggio che non sia neutro, infatti, rende le persone con disabilità “eroi o sventurati”, creando isolamento nei loro confronti. C’è bisogno, quindi, di neutralità, ma anche di dignità, di non anteporre la disabilità alla persona e di non considerare la disabilità una malattia. C’è bisogno di mettere la persona al centro.
Vietato l’uso di disabile come sostantivo, perché omette il concetto di persona, lasciando pensare che la persona stessa sia la sua disabilità.
Sbagliato dire “diversamente abile”, perché quando la definizione è arrivata in Italia, all’estero era già stata respinta, dopo essere nata agli inizi degli Anni Ottanta negli Stati Uniti, proprio perché ostenta la diversità.
Sbagliato dire carrozzella, perché quella è il romantico mezzo di trasporto trainato dal cavallo e si dice carrozzina.
Guai a dire “affetto da disabilità” perché la disabilità non è una malattia.
Giusto, invece, dire persona con disabilità, e se si vogliono trovare sinonimi si può giocare con alternative a persona abbinate all’alternativa a con disabilità, che è disabile, aggettivo legittimo. Dunque si può dire giornalista con disabilità oppure giornalista disabile, cittadino disabile, madre con disabilità e via dicendo.
Naturalmente ho citato le fonti e il consenso dei presenti mi è giunto chiaro.
Solo che a un bel momento ecco l’intervento che ti lascia perplesso: una persona, volendo enfatizzare l’importanza del creare empatia fra persona con disabilità e giornalista che lo intervista, racconta di come scrivendo i suoi articoli usi l’atteggiamento giusto pur usando le parole sbagliate.
No, non si fa così. Non esiste un atteggiamento giusto con le parole scorrette. È come dire che esiste un buon edificio fatto con i materiali sbagliati. Ma questo è il modo di pensare di tanti. Una volta che abbiamo parlato di persone con disabilità, dei loro diritti e via dicendo, che importa se lo abbiamo fatto con le parole sbagliate? Che importa se abbiamo parlato di “diversamente abile”, ammazzando i sacrifici di tante persone che negli anni si sono battute per abolire l’etichetta di diverso dalle persone disabili? Che importa se parliamo di handicap, che non si usa più da 2001 perché è un concetto superato?
Io non perdo senza giocare, quindi continuerò a portare avanti la battaglia sul giusto linguaggio.
Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Le parole non si azzeccano, non perdo senza giocare”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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